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mercoledì 31 dicembre 2014

Part time? Vietato!





E' uscito qualche settimana fa un post sul blog sempre molto interessante di Bagnai da cui estraggo questo passo

"Sempre nel 1997, tanto per dire, io ero reduce (da un paio d’anni, a dire il vero) da una lunga esperienza transalpina, dove avevo avuto modo di osservare un mercato del lavoro (e un sistema previdenziale, ecc.) radicalmente diverso dal nostro. Tanto per farvi capire, uno dei miei amici era un funzionario del Ministero della Giustizia svizzero, che aveva chiesto e ottenuto un part-time perché si voleva diplomare da baritono. Di fronte a me avevo un’assunzione a tempo pieno, nella quale nemmeno volendo avrei potuto chiedere un part-time per dedicarmi a quel cibo che solum è mio, certo non dei “diversamente”, nemmeno in un periodo nel quale noi già riuscivamo a vivere con il part-time di Roberta, che le fruttava 1400000 lire, equivalenti a ben più di 1400 euro attuali! No: io ero full-time per forza, così come, di converso, oggi, molti sono part-time per forza, e non per scelta. Vogliamo dirlo che una flessibilità buona esiste? Be’, tanto se non lo dico qui, l’ho scritto nel mio ultimo libro. Per me, nel 1997, un mercato del lavoro nel quale io avessi potuto adempiere con disciplina e onore il mio dovere verso lo Stato per metà del tempo, e per l’altra metà farmi i fatti miei, sarebbe stato un progresso. Nel 2014, un mercato del lavoro nel quale chi vuole lavorare full-time può farlo, purché non si faccia assumere full-time e si faccia pagare come un part-time, è evidentemente un regresso."

Di fatto è quello che ho sempre osservato nelle aziende in cui ho lavorato: il part time è visto da sempre come il fumo negli occhi ed è appena appena tollerato per livelli bassi, mentre è considerato una bestemmia per i livelli medio alti. Un paio di volte l'ho anche chiesto ufficialmente, perché volevo dedicarmi ad attività parallele nel rimanente tempo, e c'erano anche le condizioni interne perché ciò potesse risolvere dei problemi organizzativi, eppure in entrambi i casi mi è stato risposto picche, la seconda volta con argomentazioni che sembravano davvero una supercazzola ("Se ti concediamo il part time, ti pagheremmo praticamente lo stesso, ma ti avremmo meno tempo").

Questo anche se il part time sarebbe una pratica, quando scelta volontariamente, che darebbe vantaggi a tutte le parti coinvolte. Sarebbe un bene per l'occupazione, perché si potrebbero abbinare part time diversi per coprire il volume di lavoro, sarebbe un vantaggio per le famiglie, perché molte volte si potrebbe coordinare meglio gli impegni lavorativi e familiari, sarebbe un vantaggio per il dipendente che lo chiede, che spesso ha una qualità di vita molto maggiore se gli venisse concesso e magari sarebbe anche più produttivo nel tempo che è in azienda, e infine sarebbe un vantaggio per l'azienda, perché avrebbe una fidelizzazione e concederebbe una grossa gratificazione ai dipendenti che lo vogliono senza dover dare aumenti di stipendio.

Eppure questa pratica, soprattutto in Italia, non decolla: perché?
Io sono convinto che sia di fatto un dogma aziendale senza senso come tanti altri presentati in questo blog: mi piacerebbe sbagliarmi, ma di fatto nessuna azienda o nessuno studio ha mai dato argomentazioni verosimili del contrario.

martedì 30 dicembre 2014

Mimetismi aziendali





Il Dipendente Riluttante, anche se lavora in azienda da anni, non è mai riuscito a mimetizzarsi completamente. La maggior parte delle volte quasi ci riesce, ma c'è una cosa di cui non è mai stato capace ed è forse una di quelle più importanti e che per questo gli ha causato spesso screzi coi suoi superiori.
In azienda, ed egli lo sa bene, è necessario spesso saper far finta di lavorare: come tutti imparano dopo pochissimo tempo, nei momenti di stanca, che esistono in qualsiasi attività, in azienda non si deve mai dire di aver poco da fare o anche semplicemente rallentare un po', ma occorre fingere di continuare a lavorare come sempre. Questo anche il Dipendente Riluttante lo ha capito benissimo e riesce anche discretamente ad adattarsi, ma quello che non gli è mai riuscito è l'evoluzione ultima di questo comportamento: ormai non basta più fare finta di svolgere attività a ritmo normale anche in giorni in cui il lavoro è invece fermo, ora bisogna saper ostentare di essere assolutamente pieni e stracarichi di impegni inderogabili, anche quando invece si avrebbe poco da fare.
Un dipendente modello simula stress, anche mentre sta giocando al solitario sul pc e questo è forse il motivo principale per cui il Dipendente Riluttante non è mai riuscito a diventarlo.

mercoledì 17 dicembre 2014

Supercazzole aziendali







Messaggio su Linkedin

Buongiorno,
vorrei aggiungerti alla mia rete perchè sto cercando di portare avanti un progetto di referral marketing, nella provincia di Vicenza, costituendo un gruppo di professionisti e imprenditori.
Ti potrebbe interessare?


Federica Freddi-Assistant Director


Sarà forse perché il Dipendente Riluttante è da sempre stato affascinato dagli approcci tipo "De Bello Gallico", quello che comincia con "Gallia est omnis divisa in partes tres" e questo perché è l'archetipo del metodo di cominciare un argomento dall'inizio dando tutte le spiegazioni necessarie, però certo ricevere su Linkedin un invito di questo genere non può che lasciarlo molto perplesso perché oltre a essere agli antipodi dall'incipit di Giulio Cesare, assomiglia spaventosamente a una supercazzola.

lunedì 24 novembre 2014

Di nuovo online




 
Dopo un po di tempo che il blog era stato oscurato per problemi vari (di lavoro, logistici e di privacy) ora torna online.
Spero di riuscire a interessare i lettori attenti (o stanchi) alle strane dinamiche aziendali.

giovedì 19 giugno 2014

La ricerca della felicità

 
 
Dedico un post al seguente scambio di commenti, che mi sembra valga la pena evidenziare perché fa scaturire un dibattito interessante.
 
Anonimo ha lasciato un commento su L'azienda contro la vita di relazione
 
"Per di più questa considerazione, che ai miei occhi costituiva l’ammissione del fallimento di una vita, soprattutto detta da una donna di mezza età", ma quanti stereotipi pur di portare acqua al mulino delle proprie convinzioni... e se a questa donna andasse benissimo avere solo contatti lavorativi per i motivi più disparati della sua esistenza? Ma che ne sai tu della vita delle persone? Se la vita in azienda non ti piace, cambiala. Inutile sparare giudizi sugli altri e sul sistema, puoi cambiare la tua di vita, non stare a giudicare gli altri. Think out of the box.
 
Caro Anonimo, può darsi che sia vero quello che dici, può darsi che quella donna fosse felice così, ma sostenere che sia uno stereotipo pensare che probabilmente una persona non è felice se vive una vita solitaria mi sembra davvero esagerato. Va bene una certa dose di relativismo, ma l'essere umano normalmente per essere felice ha bisogno di una ricca vita relazionale, e questo a causa di come siamo fatti. Poi naturalmente molte persone possono scegliere strade diverse per tanti motivi, anche se io dubito che queste strade portino a una vera felicità: l'unica parte interessante del film "Into the wild" era proprio la consapevolezza che la "felicità è tale solo se è condivisa".
Ma il punto del post era che in questi casi la vita solitaria non è una libera scelta priva di condizionamenti, ma il risultato di forzature da parte di una organizzazione, che proprio perché fa delle forzature che vanno in contrasto con la realizzazione della felicità della stragrande maggioranza delle persone ha in se qualcosa di deviato.

giovedì 12 giugno 2014

La competitività



Qualche tempo fa ho visto un bel dibattito a Uno Mattina, fra il Professor Bagnai e un professore aziendalista della Luiss.
A un certo punto quest'ultimo tira fuori le solite belle metafore sportive per inneggiare alla competizione e alla necessità di “competitività”. “L’asticella”, quel bel linguaggio vibrante della gara sportiva, quel "vinca il migliore" per incoraggiare la sana competizione e far emergere i più bravi, come la vedono gli economisti alla Zingales.
Solo che, diversamente da quanto avviene alle Olimpiadi, nella vita o in azienda chi non vince la gara non si limita a perdere per poi provare a vincere la volta successiva, ma viene ridotto in miseria,  umiliato o messo ai margini.
E a me questa idea di società come perpetua competizione tra tutti, anche con le migliori regole, ipotesi già di per sé ottimistica e utopica, ricorda tanto una versione appena ritoccata della legge della giungla.

venerdì 30 maggio 2014

L'azienda totale


Tempo addietro avevo letto una serie di lavori scritti assieme di Marino Badiale e Massimo Bontempelli, (per esempio questo e questo) in cui avevo trovato il concetto di “capitalismo assoluto”:  il fatto cioè che negli ultimi decenni la logica capitalistica del profitto si è estesa all'intero ambito sociale. Riporto un passaggio tratto da “La Sinistra rivelata”, che sintetizza questi concetti:

“Si tratta della completa pervasività sociale del capitalismo storico (…) ogni aspetto della società umana, compresi i corpi biologici degli individui e i caratteri della loro personalità, viene sussunto sotto il capitale come materia della produzione capitalistica (…). Chiamiamo capitalismo assoluto il capitalismo storico che è penetrato in ogni poro e in ogni profondità della vita umana associata. Esso è assoluto perché la sua logica di funzionamento regge completamente ogni ambito della vita, senza più lasciare alcuna autonomia di scopi e di regole ad altre istituzioni. L'azienda, cioè l'istituzione che promuove la produzione e la circolazione della merci in funzione del profitto, diventa allora non più soltanto la cellula del sistema economico, ma l'alfa e l'omega della società, perché la società è diventata una società di mercato, in cui ogni bene pubblico è stato convertito in bene privato, e ogni bene privato in merce. Di conseguenza ogni istituzione viene concepita come azienda, persino l'ospedale, persino la scuola, e persino l'intero paese, che non è più nazione, ma azienda, l' “azienda-Italia”.
(M.Badiale-M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari editore, pagg.171-172)”

Inutile dire che posso solamente assistere con timore e preoccupazione a questa prospettiva, in quanto innanzitutto sono convinto che ci sono molti ambiti in cui non deve essere prioritaria la logica del profitto (anzi forse questi ambiti sono preponderanti), ma in secondo luogo perchè, viste le follie che regnano in azienda tremo al pensiero di vederle trasposte in ogni ambito della società.

mercoledì 21 maggio 2014

Donne come uomini in azienda


 

Ne avevo parlato in questo post, ma ora arriva una conferma in questo interessante articolo sul sito di Bianco Lavoro in cui si riportano indagini su un campione statistico.

Una donna-mamma che lavora non può fare carriera.
Ben il 68% delle intervistate pensa che non sia possibile fare carriera se si vuole essere una buona madre. Bisogna sacrificare le proprie ambizioni lavorative se si vuole aver cura dei figli e seguirli nella crescita. Il 67% di loro sostiene inoltre che non sia possibile proporre ai propri superiori soluzioni in grado di andare incontro alle loro esigenze di work-life balance: rifiutarsi ad esempio di partecipare alle riunioni serali significa tagliarsi fuori da ogni possibilità di avanzamento professionale.
Il mondo del lavoro impone di vivere da uomo e questo non è possibile.
Ben il 77% delle donne che hanno partecipato al sondaggio sostiene che per avere successo nel mondo del lavoro bisogna comportarsi come un uomo e rinunciare alla propria parte femminile, per natura più assertiva e conciliante. Le donne inoltre devono fare i conti con una fase molto importante della loro vita, la maternità. Il 68% delle intervistate ritiene inevitabile sacrificare il lavoro per dare priorità alla gravidanza prima e alla maternità dopo e il 58% preferisce lasciare il lavoro piuttosto che pagare una baby sitter per i figli.
Sono contento che le mie osservazioni empiriche dall'interno siano confermate da un'indagine oggettiva, che contraddice tutto ciò che viene invece affermato dalle aziende nei loro discorsi e nei loro slogan.

martedì 13 maggio 2014

Non c'è posto in azienda per....Michael Jordan


Torniamo sui presunti parallelismi con il mondo dello sport di cui l'azienda coglie a piene mani immagini, slogan e metafore.
C'è una famosa citazione di Michael Jordan che sicuramente avrete sentito.

"Avrò segnato undici volte canestri vincenti sulla sirena, e altre diciassette volte a meno di dieci secondi alla fine. 
Ma nella mia carriera ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, trentasei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l'ho sbagliato. Nella vita ho fallito molte volte. 
Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto".

L'aspetto che mi ha sempre colpito di questa citazione è la consapevolezza di quanto nello sport il fallimento e la sconfitta facciano parte del gioco, quanto le più grandi vittorie e di come la linea che divide le une dalle altre sia spesso estremamente sottile. 
L'idea che viene trasmessa nelle frasi di Michael Jordan è che se ci sono dei fallimenti a volte è perché si sono tentate azioni difficili dove la possibilità di sbagliare è estremamente presente, ma proprio tentando queste azioni possono scaturire grandi vittorie. Per accettare questa situazione occorre accettare la sconfitta, ma in azienda dove la possibilità di un fallimento non viene neanche contemplata, simili frasi non potrebbero mai essere pronunciate.

Insomma, io sono sicuro che se Michael Jordan fosse entrato in azienda, invece di giocare coi Bulls, con idee come queste non avrebbe superato neanche il periodo di prova.....

sabato 10 maggio 2014

L'aziendalese di Marchionne

 
 

Il discorso di apertura di Marchionne alla presentazione dei nuovi piani della Fiat
 
”C’è un mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadono. Le fanno accadere, non lasciano i loro sogni fuori la porta ma si lasciano coinvolgere e si assumono rischi. Lasciano il loro segno. E’ un mondo dove ogni giorno e ogni nuova sfida porta con sé l’occasione di creare un futuro migliore”, come ha detto aprendo il suo intervento alla presentazione del piano industriale del gruppo. “Le persone che vivono in questo mondo non vivono mai due volte lo stesso giorno perchè sanno che c’è sempre qualcosa che può essere fatto meglio. Questo mondo eccezionale appartiene a queste persone così come queste persone appartengono a questo mondo. Lo portano alla vita con il loro duro lavoro, gli danno forma con il loro talento – ha proseguito -. Questo potrebbe non essere un mondo perfetto e certamente non facile. Nessuno siede ai margini e il ritmo può essere furioso perché queste persone sono appassionate, molto appassionate, a quello che fanno. Coloro che scelgono di vivere in questo mondo credono che assumersi responsabilità conceda un significato più profondo al loro lavoro e alle loro vite. Benvenuti in questo mondo. Benvenuti a Fiat Chrysler Automobiles”.
 
C'è tutta la retorica, gli slogan e la mancanza di concretezza del miglior aziendalese: praticamente un esempio perfetto di quanto esposto in questo blog finora.

lunedì 28 aprile 2014

Ultracinquantenni in azienda


Ed ecco un'altra notizia che fa riflettere sul fantastico mondo dell'azienda.
In questo caso ciò che è davvero assurdo sono tutte le discriminazioni che di fatto le aziende, e soprattutto le agenzie di selezione, mettono in atto in fase di reclutamento: in questa delicata circostanza si concentrano di fatto sugli aspetti esteriori, età, sesso, stato civile, per effettuare le scelte che non sono in grado di fare valutando esperienze, competenze e attitudini in maniera distaccata r oggettiva, anche se in realtà proprio questo dovrebbe essere il loro mestiere.
E quindi arriviamo alla necessità di dovere intervenire con strumenti legislativi per fare attuare regole di buon senso: in altri paesi addirittura vietano ai reclutatori di chiedere la data di nascita, mentre nelle aziende in Italia, l'età è la prima cosa che viene indicata negli annunci, prima di ogni altra cosa (di fatto operando una discriminazione per cui non protesta nessuno).

giovedì 17 aprile 2014

Inglesismi inutili



Gira in rete questa notizia, che è una reazione sui neologismi inglesi inutili, e non posso non segnalarla, visto che ne avevo parlato per l'ambiente aziendale dove l'uso dei neologismi inglesi addirittura inventati o ibridati raggiungeva l'apice.
L'idea della lista che contenesse anche le possibili alternative viene da questo blog e mi sembra un'iniziativa assolutamente encomiabile: perchè è sicuramente vero che...

E dunque sì, potete dire in itangliano: “Giuseppe, facciamo asap un meeting per un fine tuning della customer satisfaction. Prepara i file, trova la location giusta, organizza un quick lunch e cominciamo lo show”.
Ma potreste anche dire in italiano: “Giuseppe, facciamo subito una riunione per una messa a punto del servizio clienti. Prepara i documenti, trova il posto giusto, organizza un pranzo veloce e cominciamo lo spettacolo”. Magari Giuseppe capisce anche meglio di che si tratta. E, magari, il pranzo veloce risulta più gustoso del quick lunch - See more at: http://nuovoeutile.it/dire_in_italiano/#sthash.hYMpCcZV.dpuf
Potete dire in itangliano: “Giuseppe, facciamo asap un meeting per un fine tuning della customer satisfaction. Prepara i file, trova la location giusta, organizza un quick lunch e cominciamo lo show”.
Ma potreste anche dire in italiano: “Giuseppe, facciamo subito una riunione per una messa a punto del servizio clienti. Prepara i documenti, trova il posto giusto, organizza un pranzo veloce e cominciamo lo spettacolo”. Magari Giuseppe capisce anche meglio di che si tratta. E, magari, il pranzo veloce risulta più gustoso del quick lunch.
Ma potreste anche dire in italiano: “Giuseppe, facciamo subito una riunione per una messa a punto del servizio clienti. Prepara i documenti, trova il posto giusto, organizza un pranzo veloce e cominciamo lo spettacolo”. Magari Giuseppe capisce anche meglio di che si tratta. E, magari, il pranzo veloce risulta più gustoso del quick lunch. - See more at: http://nuovoeutile.it/dire_in_italiano/#sthash.hYMpCcZV.dpuf potreste anche dire in italiano: “Giuseppe, facciamo subito una riunione per una messa a punto del servizio clienti. Prepara i documenti, trova il posto giusto, organizza un pranzo veloce e cominciamo lo spettacolo”. Magari Giuseppe capisce anche meglio di che si tratta. E, magari, il pranzo veloce risulta più gustoso del quick lunch - See more at: http://nuovoeutile.it/dire_in_italiano/#sthash.hYMpCcZV.dpuf
E dunque sì, potete dire in itangliano: “Giuseppe, facciamo asap un meeting per un fine tuning della customer satisfaction. Prepara i file, trova la location giusta, organizza un quick lunch e cominciamo lo show”.
Ma potreste anche dire in italiano: “Giuseppe, facciamo subito una riunione per una messa a punto del servizio clienti. Prepara i documenti, trova il posto giusto, organizza un pranzo veloce e cominciamo lo spettacolo”. Magari Giuseppe capisce anche meglio di che si tratta. E, magari, il pranzo veloce risulta più gustoso del quick lunch - See more at: http://nuovoeutile.it/dire_in_italiano/#sthash.hYMpCcZV.dpuf

lunedì 14 aprile 2014

Lavorare meno: esperimento a Goteborg


Ma guarda un pò che notizia sul Corriere!
Ma allora non è vero che passare tanto tempo in sede al lavoro sia un segno di produttività!
E forse invece è vero che aumentare il tempo trascorso in ufficio serve solo per scopi propagandistici.

P.S. La notizia è rimbalzata anche su altri siti, fra cui quì, dove ci sono maggiori particolari: l'esperimento non è solo volto ad aumentare la produttività, ma soprattutto ad aumentare il benessere sociale senza diminuire la produttività. E questo ritengo che sia il vero scopo che dovrebbero avere le politiche del lavoro: dovrebbero cercare di aumentare il benessere delle persone e della società in generale, ma di questo aspetto ce ne siamo quasi dimenticati, soprattutto in azienda.
Ma avremo modo di tornare su questo argomento.

giovedì 10 aprile 2014

Un anno di cronache aziendali

 

Quasi dimenticavo.
Oggi questo blog compie un anno.
Quando l'ho cominciato non pensavo che sarebbe durato così a lungo e invece il simpatico mondo aziendale mi fornisce sempre nuovi spunti per post critici, ironici o sconsolati e per di più qualche lettore ha voluto partecipare scrivendo post sulle loro esperienze aziendali e di questo sono molto contento.
E quindi non resta che continuare ad esplorare e documentare il fantastico mondo dell'azienda: secondo me un altro anno lo si riempie tranquillamente, soprattutto se qualche altro lettore vuole raccontare la sua....

Essere madri in azienda


Ultimamente ho letto due bei post su due blog che seguo, che si riallacciano a quello che avevo scritto qualche settimana fa. Mi ha colpito soprattutto il primo, che parla della condizione delle madri in azienda, con poche righe che raccontano casi concreti.
Ovviamente questa condizione, come purtroppo ben sappiamo, è difficile in ogni contesto lavorativo, soprattutto quelli caratterizzati dal precariato dilagante, ma ciò che è ancora più grave è che in azienda, anche per posizioni di livello medio e a tempo indeterminato, le madri vengono pesantemente discriminate e a volte anche sottoposte a forme di mobbing, come è descritto bene nel post.

"Di è un poco più grande di me, i suoi figli sono cresciuti in fretta e ormai sono più alti di lei. Quando erano piccoli ha barattato per sempre ferie, aumenti e dignità per un’ora di lavoro in meno ogni giorno, un’ora in più da passare con i suoi bambini. È circondata da maschi che aspettano da quasi quindici anni che lei si scusi per le sue gravidanze. Gli stessi che, al rientro dalla seconda maternità, le fecero sparire la sedia e la scrivania dietro la quale lavorava. Giusto per essere chiari. Per essere sicuri che non osasse riprovarci una terza volta.
C’è Gi, che lavora per una grande azienda. Ha una pausa pranzo interminabile e una figlia piccola che resta al nido fino a tardi. La flessibilità non esiste, quando servirebbe per rientrare a casa prima del calar del sole e correre al parco con la tua bambina per mano. Gi esce di casa molto presto al mattino e rientra quando ormai è buio. Prendere o lasciare, un’altra strada non c’è."

E io posso aggiungere la storia di A. che era una dipendente di livello direttivo in una grande azienda in cui ho lavorato e che viaggiava molto per lavoro all'estero. Quando ha avuto la seconda figlia e ha chiesto di avere un ruolo che le consentisse di stare di più in sede le è stato proposto in cambio di dimettersi e essere riassunta con un livello più basso ed è stata per molti anni emarginata con ruoli molto più bassi di quello che aveva: tutto perchè si era permessa di avere due bambine a distanza ravvicinata.

Purtroppo questa è una semplice conseguenza della mentalità che impera in azienda e di cui parlo in questo blog: nelle aziende, specialmente in Italia, si viene misurati sulla base della disponibilità, della presenza fisica, del numero di ore dedicate al lavoro e sulla completa separazione fra vita lavorativa e tutti gli altri ambiti della vita (affetti, relazioni, compiti sociali, passioni….): non viene concepito che questi ambiti si possano mischiare o che si possa lavorare efficacemente in molti ruoli e in molte occasioni anche senza essere presenti fisicamente in un certo luogo in certi orari.
Ovviamente aderire a questa mentalità vuol dire mettere tutto in subordine alla vita lavorativa che peraltro più si sale nella carriera e più diventa ingombrante. In una simile situazione, in azienda, quelli che fanno carriera devono rinunciare spesso alla vita famigliare o a quella di relazione o almeno devono essere disposti a penalizzarla fortemente: di solito gli uomini sono più propensi a fare questo, anche perchè forse un uomo può adempiere al proprio ruolo sociale, per tradizione o per vocazione non so, anche mettendo al primo posto il lavoro. Io credo invece che sarebbe ora di cambiare questa mentalità e poter mischiare i vari ambiti senza penalizzarli, anche perchè oggi ce ne sarebbero i mezzi: se le cose però rimangono come sono, penso che sia meglio che una donna rinunci a fare carriera in azienda, piuttosto che snaturarsi ancora di più di come fa un uomo.
Credo che sia un prezzo troppo alto e io stesso non ho mai accettato di pagarlo.

Quanto è lontana la mentalità di un'azienda "diversa" di cui avevo parlato in uno dei primi post, e che al contrario facilita e incoraggia la vita relazionale dei propri dipendenti e soprattutto dei genitori!

“Una cosa assolutamente non volevo che cambiasse, anche se eravamo costretti a fare le cose seriamente: il lavoro doveva essere un divertimento per tutti, tutti i giorni.
Tutti dovevano venire al lavoro a piedi e fare le scale due alla volta, avevamo bisogno di essere circondati da amici e tutti dovevamo poter indossare quello che li pareva e anche stare scalzi; tutti avevano bisogno di orari flessibili per poter andare a fare surf quando c’erano le onde giuste o a sciare quando c’era la neve, o poter stare a casa ad accudire un bambino con l’influenza.
Dovevamo rendere meno netta la divisione tra lavoro, divertimento e famiglia.
Su insistenza di Malinda istituimmo anche un asilo nido in sede: la vicinanza dei bambini che giocavano in cortile e pranzavano coi genitori aiutava a mantenere l’atmosfera generale molto più familiare che corporativa e inoltre sappiamo che i genitori sono più produttivi se non sono preoccupati per i loro figli: pensiamo che le scelte che molte persone che lavorano fanno e che contrappongono la carriera alla famiglia, di fatto non dovrebbero esistere.”

mercoledì 2 aprile 2014

Il tempo per la felicità




In rete sta girando una iniziativa molto bella e interessante e che trovo molto in tema con molti post in questo blog.
Si tratta di una sfida a testimoniare la propria felicità per 100 giorni di seguito, concentrandosi nel trovare questi momenti nella propria vita e dedicando quindi tempo a tutto ciò. Perchè la tesi è che le persone oggi siano meno felici perchè più occupate a dimostrare di essere indaffarate per potersi dedicare a questi momenti di soddisfazione personale.
E' esattamente quello che più volte è stato descritto in questo blog.

Vi segnalo il link di questa iniziativa, quindi, perchè la trovo molto siginificativa e riporto quì un estratto

Sei capace d'essere felice per 100 giorni di fila?
Non hai tempo, vero?

Ma che dici?!
Viviamo in un'epoca in cui avere un'agenda piena è diventato qualcosa di cui vantarsi. mentre la vita diventa sempre più frenetica, abbiamo sempre meno tempo per approfittare del momento presente. Per ogni essere umano, La capacità di apprezzare se stessi nel momento e nell'ambiente circostante in cui ci si trova è il primo passo per raggiungere uno stato di felicità duratura.

lunedì 31 marzo 2014

Donne con le gonne: non in azienda!





In tanti anni di vita in azienda ho capito che una delle cose che io ho sempre cercato e che non sono mai riuscito a trovare è il poter far convivere esperienze e attività diverse, organizzandomi per poterlo fare. In tutti i campi della mia vita questa è sempre stata la mia filosofia e credo di essere sempre riuscito a portare avanti tante iniziative giocando sui tempi e sulle priorità da stabilire di volta in volta. Questo però nelle aziende in cui ho lavorato non sono mai riuscito a trovarlo e di fatto ho sempre dovuto fare salti mortali, e spesso fingere, per continuare con questa mentalità: lavorare, ma anche essere presente in famiglia, studiare, fare sport, avere momenti di relax e bilanciare il lavoro in sede con quello all'esterno e magari in realtà differenti.
In azienda, come si capisce bene quì, questo modo di fare non piace e chi lo attua viene considerato un elemento strano e di disturbo, senza neanche analizzare se questo porta benefici all'azienda stessa. L'azienda è esclusiva e vuole esclusività, e anche se potrebbe avere vantaggi da una contaminazione non riesce a comprenderli.

Vuole che i suoi dipendenti siano sempre presenti, sempre disponibili a chiamata, ama poterli controllare e questo anche nell'era digitale in cui si può essere ovunque e interagire lo stesso nella stragrande maggioranza delle attività.
Questo è il motivo principale per cui nessuna donna che non si snaturi potrà mai fare carriera in azienda: perchè la donna per necessità deve seguire tante attività insieme, se vuole tenere insieme tutto (famiglia, affetti, casa, benessere personale...), mentre l'azienda, soprattutto dai dirigenti, vuole dedizione assoluta e continua, non tollera che ci sia nient'altro nelle loro vite che abbia la precedenza.
Una donna che accetti questo otterrebbe solo di trasformarsi in una pessima copia del peggiore stereotipo maschile: questo lo aveva capito magistralmente Vecchioni nella canzone "Voglio una donna".
E quindi ci potranno essere donne che non si sono snaturate che riescono a raggiungere l'apice in tanti campi, ma se le aziende rimangono così, non potranno mai farlo in azienda.

martedì 25 marzo 2014

Essere indaffarati? Uno status symbol.


Esiste in azienda una affettazione dell'essere superimpegnati e al contrario un disprezzo per chi riesce a trovare momenti di distacco da dedicare a passioni o affetti che siano esterni agli impegni in azienda. In questo blog più volte ho descritto questo fenomeno a cui assistevo e più volte ho anche descritto come la maggior parte delle volte nascondevo i momenti che ho sempre ritagliato per me.
Oggi ho letto due post su due blog che parlano di un libro in cui questo fenomeno viene analizzato e dove viene spiegato che il mostrarsi indaffarati è ormai uno status sociale a cui non si può rinunciare. Questo accade in tutti i campi della vita, ma naturalmente è in azienda che raggiunge l'apice e il parossismo.
Non posso quindi che essere fiero dell'elogio della lentezza e del prendersi del tempo di cui parlavo in questo post e non posso non rilanciare questi messaggi, sperando di contribuire a un'inversione di questa tendenza del nostro tempo.

martedì 18 marzo 2014

L'azienda contro la vita di relazione




Caro Dipendente Riluttante,
torno a raccontarti malinconici episodi della mia vita aziendale.

Qualche giorno fa ho avuto un colloquio con la responsabile del personale, perché l’azienda ha deciso di dotarmi di un telefono aziendale (con mio sommo rammarico). Mentre mi presentava le condizioni di utilizzo, mi ha detto che mi era consentito effettuare anche telefonate personali, senza bisogno di inserire codici e questo veniva fatto perché l’azienda capiva la mia disponibilità e mi veniva incontro con questo vantaggio.
Bene, ho pensato, una volta tanto un’azienda comprende che nei rapporti personali e sociali in genere non si può solo pretendere, ma occorre anche concedere, soprattutto fiducia.
Subito dopo la responsabile ha aggiunto che del resto “ormai nella nostra vita gli unici contatti che si hanno sono quasi tutti lavorativi, guardi me, io le uniche telefonate a persone al di fuori dell’ambiente di lavoro che effettuo sono quelle ai miei genitori una volta per settimana.”

La cosa triste era che questa affermazione di fatto descriveva una vita solitaria e priva di relazioni. Per di più questa considerazione, che ai miei occhi costituiva l’ammissione del fallimento di una vita, soprattutto detta da una donna di mezza età, che nella mia considerazione è sempre il fulcro della vita di relazione, non era espressa in maniera sofferta nel corso di una triste analisi, ma era detta con soddisfazione e orgoglio. Sentivo finalmente con le mie orecchie quello che per anni avevo sempre intuito: la mentalità aziendale non solo non facilita le relazioni personali di tipo disinteressato (affetti, amicizie, solidarietà), ma addirittura le considera inutili e forse addirittura dannose, tanto da indurre un tono di fierezza in coloro che se ne sono liberati.
Questo ha ancora di più inferto un colpo durissimo al mio morale, già incrinato dai tanti episodi degli ultimi anni.

Un solitario saluto



                                                                                 Il Dipendente Disilluso

sabato 1 marzo 2014

L’ultimo dei giapponesi


 
Caro Dipendente Riluttante,
voglio raccontarti un altro malinconico episodio a cui ho assistito in questo triste crepuscolo che stiamo vivendo nell'azienda in cui lavoro e che mi è sembrato simile a quello a cui si riferisce l'immagine che ti allego.
Ma nell'episodio che voglio raccontare però la scena non è quella di un atollo del pacifico con palme e sole a picco; e con dei turisti americani che gironzolando incontrano un barbuto e stracciato orientale con mitra arrugginito e katana in pugno. La scena è invece quella di in una storica azienda italiana a partecipazione statale, uno degli ultimi baluardi di quella grande industria che fu. Da anni in difficoltà di bilancio, il suo migliore destino sarà quello di essere svenduta a qualche gruppo straniero sbarcato per far spesa in Italia.
 
Siamo allo “Staff Meeting”, riunione liturgica mensile consacrata dalla massima dirigenza in capo (notare l’inglesismo aziendalese stesso che sta a dimostrare la banalità dell’evento e la perdita di tessuto culturale e professionale a cui è soggetta la Società).
Un giovane quadro, rampante, rasato ed incravattato nel suo consueto intervento davanti ai dirigenti responsabili, pensando di fare cosa gradita all’istituzione, dichiara apertamente che “il mio cuore batte per questa Business Unit e per questo lo butto sempre oltre l’ostacolo”.
Da notare che, se avesse pronunciato qualche mese prima questa fatidica frase, sarebbe stato messo su un piedistallo e pubblicamente elogiato davanti agli astanti invidiosi dell’occasione persa di dire la medesima frase.
E’ per questa motivazione che il nostro intempestivo amico l’ha in effetti pronunciata, sbagliando tuttavia completamente le tempistiche: oramai, infatti, l’azienda è stata dichiarata ufficialmente in vendita e neanche i vertici dirigenziali credono più a tutte le liturgie e alle panzane che hanno messo in piedi.
 
Infatti, alle sue parole, le reazioni degli astanti, in primis i dirigenti, sono risatine e sberleffi, quasi che il malcapitato fosse nudo con colla, piume e le orecchie da asino sulla testa (se qualcuno avesse avuto cappellini colorati e trombette, sarebbero state usate anche quelle).
Addirittura, il dirigente in capo, presente anch’esso alla lassativa riunione, perplesso per la mancanza di buon senso del giovane, lo apostrofa pubblicamente e ironicamente: "Bianchi, io spero che il suo cuore batta per cose più degne della Business Unit!"
E pensare che qualche mese prima era proprio questo dirigente ad arringare retoricamente gli astanti nel gettare il proprio organo pompante oltre la trincea nemica.
Ora invece sono rimasti solo pochi soldatini con il moschetto in mano che non hanno capito che la guerra è finita e continuano a presidiare la loro postazione nell'unico modo che sanno fare: usando l'aziendalismo più convinto!
Sic transit gloria mundi.
 
Mesti saluti
 
                    Il Dipendente Disilluso

venerdì 28 febbraio 2014

L'Imperatore e il mare



Qualche giorno fa, curiosando nella mia libreria mi è capitato in mano un libro letto qualche anno fa. Si trattava delle "Memorie di Adriano" della Yourcenar e aprendolo per rileggere i brani sottolineati ho trovato questo passaggio in cui viene descritto un episodio della campagna che l'Imperatore Traiano condusse contro i Parti per conquistare i territori dell'Asia minore.
 
"Non appena giunto a Caraci, l'imperatore stremato era andato a sedersi sulla ghiaia, a contemplare le torbide acque del Golfo Persico. Si era ancora all'epoca in cui non dubitava della vittoria; eppure, per la prima volta, fu sopraffatto dall'immensità del mondo, dal terrore della vecchiaia, dei limiti che ci rinserrano tutti. Grosse lacrime rigarono il volto di quell'uomo che si credeva incapace di piangere. L'Imperatore, che aveva portato le aquile romane su lidi inesplorati fino a quel giorno, comprese che non si sarebbe imbarcato mai su quel mare tanto vagheggiato: l'India, la Battriana, tutto l'Oriente oscuro di cui s'era inebriato a distanza, sarebbe rimasto per lui un nome, una visione. L'indomani notizie funeste lo costrinsero a ripartire.
Tutte le volte che il destino mi ha detto no, ho ricordato quelle lacrime versate una sera, su una sponda lontana, da un vecchio che forse per la prima volta guardava in faccia la sua vita."

E' un brano struggente, pieno di suggestione e commozione, in cui Adriano capisce che ci sono imprese che per quanto si è grandi risultano impossibili e la vera grandezza (che poi sarà la sua) è quella di saperle evitare o sapere quando ci si deve rinunciare.
In quel momento non ho potuto non fare il parallelo con le tante iniziative velleitarie che intraprendono invece i nostri moderni capitani d'azienda e in cui a furia di slogan l'idea stessa dell'impossibilità e del fallimento non viene mai neanche contemplata.
 
E' vero che moltissime volte, proprio tentando imprese che sembrano impossibili, arrivano successi inaspettati, soprattutto nello sport che è sempre una grande ispirazione di immagini e paragoni per la retorica aziendale. Però è vero che proprio quelle imprese vengono fin dall'inizio percepite come estremamente difficili, dove la prospettiva di un fallimento è ben presente e dove se ciò avviene di solito, anche se c'è la delusione, nessuno viene colpevolizzato.
In azienda invece non si deve neanche parlare della possibilità di un fallimento di qualsiasi iniziativa e nel caso che ciò accada si cercherà di scaricare le colpe gli uni sugli altri o si trasmetteranno rimproveri e sanzioni lungo tutta la catena gerarchica a scendere.
 
E se qualcuno prima di arrivare al fallimento prendesse coscienza della situazione e facesse una riflessione come quelle che passarono nella mente di Traiano, sicuramente qualche suo superiore o qualche altro collega non perderebbe l'occasione di esorcizzare questo stato d'animo con uno dei tanti slogan aziendali autocelebrativi.

giovedì 20 febbraio 2014

I Mastini della Guerra



Ricevo da un lettore e pubblico con piacere

Caro Dipendente Riluttante,
ti leggo spesso con interesse e ora ho deciso di scriverti per dare a quanti si affacciano nel mondo del lavoro alcuni consigli, basati sulle esperienze che ho vissuto nella mia travagliata esperienza in tante aziende. Proprio in base a queste esperienze, penso che un giovane e speranzoso laureato che cercasse in questi perigliosi frangenti economici un posto sicuro in un’azienda italiana con l'aspirazione a una luminosa carriera, dovrebbe seguire il seguente piano d'azione, che però nessun "esperto" di sviluppo professionale si sognerebbe mai di suggerire.

Partendo dal presupposto che il gioco di squadra è un dogma e un mantra costantemente ripetuto in azienda, fino a farlo diventare una litania liturgica, già durante i colloqui di selezione, il giovane non deve mai stancarsi di sottolineare quante e quali volte egli si sia messo in luce in tale mirabile arte.
Successivamente, però, ad assunzione avvenuta è necessario che il nostro. avventuroso ed istrionico amico, pur ripetendo la litania ogniqualvolta se ne presenti la necessità, si comporti in tutt’altra maniera.
Qui di seguito il giusto percorso in pochi ma chiari passi.
 
1)    Scegliere la vittima.
Adocchiare un proprio sottoposto (od un proprio pari o, meglio ancora, un timido superiore) da tenere d’occhio e studiare nelle sue reazioni emotive per circa 1 o 2 settimane.
 
2)    Organizzare l’imboscata.
Successivamente, con un pretesto qualsiasi, legato al lavoro o ad un altro qualsiasi frangente, in un momento in cui si ritiene la vittima più psicologicamente attaccabile, effettuare a voce alta un’esternazione aggressiva (una critica ad un programma che non si riesce a mantenere, ad un preventivo che non si riesce a rispettare, ad un prodotto qualitativamente scadente). Non importa se la vittima è in parte o in toto responsabile del problema: la cosa importante è esternare a voce alta ed in pubblico con la convinzione che la colpa sia del malcapitato obiettivo dell'esternazione. Meglio sarà se questa esternazione verrà fatta con toni aggressivi che non si userebbero neanche col peggior nemico, figuriamoci se con un cosiddetto "compagno di squadra" con cui si condividono allegre, fantasiose e costose iniziative di "team building".
 
Fatto ciò, in men che non si dica si spargerà in azienda la voce che il nostro eroe si che ha le palle, lui si che si fa rispettare e che è un gran stronzo o, parafrasando Fantozzi, un gran TEST DI CAZZ: ecco, questa è la cosa più bella ed il titolo più apprezzato a cui il nostro amico potrebbe ambire.
Se ripeterà altre volte l'operazione, magari anche verso altre vittime, sicuramente verrà notato dall'alta dirigenza e verrà preso sotto l’ala protettrice di qualche capo funzione che ha bisogno, nelle riunioni comandate, di difendere le proprie inefficienze e scardinare il gioco di squadra senza portarsi dentro altro lavoro. E questo sarà un percorso professionale di sicuro successo: altro che lauree, altro che master e preparazioni, altro che competenze; una sola grande qualità: fare il mastino ed abbaiare a comando nelle riunioni tra funzioni, non importa se a ragione o torto. Il tuo capo con un semplice cenno del capo ti farà sapere quando la tua professionalità è richiesta e tu…via come Melampo (il cane di Pinocchio) che abbaia per far scappare la volpe dal pollaio.
 
Una figura di tal fatta sarà ammirata da tutti i dirigenti, avrà una luminosissima carriera e ben presto potrà richiedere anche aumenti di stipendio e benefit sicuramente meritati.
D’altronde, chi negherebbe qualcosa ad un Mastino della Guerra?
 
Un abbaiante saluto
 
                                                        Il Dipendente Disilluso

mercoledì 12 febbraio 2014

La procedura uomo-scimmia





Quando il capo si interessa del mio carico di lavoro per assegnarmi una mansione che lui ritiene importante e dalla massima priorità, dopo anni e anni di convivenza lavorativa, ho capito che è in arrivo un lavoro beffa.
L’incarico beffa è, per esempio, quel lavoro da svolgere dove non devi fare niente, ma “solo” coordinare e attendere risposte da più reparti che ovviamente tarderanno le consegne o non faranno adeguatamente la loro parte di incarico. La colpa ricadrà su di te in ogni caso, pur non in tuo potere, perché è chiaro che la bassa manovalanza non può alzare la voce con i capi di altri reparti per sollecitare una consegna. Potrai al più ricordare, sollecitare e far presente che sei in attesa che altri svolgano il loro dovere. Un incarico beffa può nascondere un elevato rischio “diplomatico”.
Altre volte invece l’incarico beffa riguarda attività che nessuno vuole svolgere, perché considerate di poco valore o, al contrario, considerate di vitale importanza ma troppo costose per essere eseguite da fornitori esterni o consulenti qualificati. In questo caso serve quello io chiamo “uomo-scimmia” che si limita ad eseguire quello che gli viene detto, senza che capisca nulla di quello che succede prima e dopo lo svolgimento del suo incarico. L’uomo scimmia opera senza sapere il contesto nel quale deve agire, limitandosi ad eseguire la procedura fornita da altri, che, a detta del tuo capo è molto semplice. Sarà per questa semplicità che il consulente qualificato se la fa pagare molto cara? La procedura uomo-scimmia prevede l’esecuzione di quanto scritto nell’apposito documento cartaceo, consegnato sistematicamente un paio di ore prima dell’avvio dell’attività!
Non è una mansione difficile, lo potrebbe fare chiunque e il capo deve pur scegliere qualcuno. A un responsabile che assegna una attività poco gradita , non resta che assegnarla con l’aziendalese più consumato: “Abbiamo scelto te per le doti di precisioni e affidabilità”, “E’ un lavoro altamente sfidante”, “L’intera azienda attende questo lavoro”, etc.

E veniamo ai fatti: era il dicembre del 2013. Il mio responsabile si interessò del mio carico di lavoro durante le feste natalizie. In particolare si interessò delle mie ferie, pianificate, come da richiesta dell’entusiasta responsabile del personale, a gennaio 2013. Mi disse che c’era un lavoro altamente sfidante, di massima importanza per l’azienda, che voleva affidarmi ma che era particolarmente urgente e ventilò l’ipotesi di saltare qualche giorno di ferie. Poco male, non amo le feste comandate. Vengo convocata a un paio di riunioni infuocate tra diversi reparti, dove tutti parlano di questa importante attività da svolgere. Io, essendo entrata a progetto già avviato non capisco molto, e lo faccio presente al mio responsabile che mi liquida con un “tranquilla, quando tutto sarà deciso, ti diremo cosa fare” e mi esclude anche da queste riunioni.  
L’attore non protagonista, nonché uomo-scimmia, sono io. Il lavoro sfidante consiste nel dare “pochi e semplici click” a metà di un processo che coinvolge diversi reparti dell’azienda. Inutile sollevare dubbi o perplessità sulla mia mancanza di conoscenze “generali”, viene continuamente ribadito che l’attività è molto semplice, che non è necessario avere competenze specifiche, che mi verrà fornito un documento scritto chiaro, con i passaggi da eseguire e che è volontà dell’azienda seguire l’avvio delle nuove procedure con personale interno, invece che affidarsi al fornitore che ha dato vita al progetto.

Come nelle migliori tradizioni aziendalesi il tutto deve essere assolutamente svolto entro gennaio, e quando inizio a bussare alla porta del mio responsabile, intorno al 15 gennaio, mi viene risposto che è ancora presto … ma presto sarà troppo tardi! Solo intorno al 20 gennaio vengo convocata per la pianificazione delle attività che si dovranno svolgere tutte nell’ultima settimana di gennaio. La procedura che mi riguarda non è ancora pronta, ma posso (io) sollecitare il fornitore. Il problema della mancanza della procedura pare sia un MIO problema! Mi sento talmente motivata e coinvolta nella riuscita del progetto che alla 3° mail inviata al fornitore (per CC al mio capo) per la richiesta della procedura, depongo le armi e attendo semplicemente la data concordata.
Arriva il giorno X e mezza azienda è sull’attenti in attesa dei miei “pochi e semplici click”. Della procedura nessuna traccia e il capo conferma le mie sensazioni su come la procedura fosse un MIO problema sbottando con un “E io che cosa ci posso fare?” (avrei voluto rispondere: “vedi tu, mi tiri in mezzo a sto casino, mi dici che è uno robetta da quattro click, mezza azienda è ferma, non so neanche di cosa si parla e vorresti che mi preoccupassi???”)
Telefonate, sfuriate, rimpalli, discussioni … la procedura non c’è, il fornitore non è in grado di fornirla, occorre provarla insieme e al telefono eseguo al meglio delle mie capacità di uomo-scimmia i pochi click che mi vengono richiesti. Qualcosa va storto. Il fornitore si prende un pomeriggio per capire, poi attacca la mattina del giorno dopo, e quello dopo ancora. Si prende tutta la settimana, mezza azienda rimane ferma tutta la settimana e inaspettatamente gennaio finisce!

A inizio febbraio avevo preso ferie per fare un po’ di formazione. Può sembrare strano che un impiegato debba prendere ferie per fare formazione professionale, eppure è così e, tra l’altro, la pago io. Il progetto non è concluso a gennaio come previsto, quindi il capo mi convoca per discutere delle ferie e mi chiede se sono “indispensabili o rimandabili”. Con una certa fierezza gli annuncio che le ferie mi servono per un corso di formazione. Sono ormai anni che l’azienda non propone più formazione ai collaboratori, ma ingenuamente mi aspetto almeno un po’ di ammirazione, un vago incoraggiamento, …. niente di tutto questo! Spalanca gli occhi sollevato e annuncia “Benissimo, allora faranno sicuramente un’altra sessione del suo corso, quindi per scrupolo, sospendiamo le ferie in attesa di sapere gli esiti del progetto!”
Ovviamente gli esiti del progetto non dipendono da me, ma in primis dal fornitore che porta avanti il progetto e a seguire dai reparti aziendali che devono verificare l’efficacia delle nuove disposizioni. Io ero solo l’uomo-scimmia incaricato di eseguire pochi compiti. 

Il danno: ho dovuto annullare le ferie e disdire l’iscrizione al corso per compiacere il mio capo. 
La beffa: il fornitore, per scrupolo, ha deciso di eseguire personalmente tutti e quattro i semplici click rendendo la mia presenza in azienda assolutamente inutile.

Scimmieschi saluti
La Dipendente Recalcitrante


sabato 8 febbraio 2014

Leggere libri secondo le tecniche aziendali



Ho trovato un link a questo articolo su Facebook


Leggere quaranta pagine al giorno è un obiettivo ragionevole, che fa sembrare meno spaventosa l’idea di leggere 52 libri all’anno.
 
Negli ultimi cinque anni ho letto più di un libro a settimana, senza ritardi o interruzioni. Sono sempre stato in anticipo sulla mia tabella di marcia. Vorrei che quest’anno lo faceste anche voi. Ecco come si fa.
Perché è importante leggere tanto
Ti fa sentire benissimo. Ti dà una quantità incredibile di idee. Ti aiuta a pensare in maniera più profonda. È meglio della tv e perfino di internet. Ti aiuta a capire il mondo. È il mattone che costruisce l’abitudine di portare a termine le cose. Vabbè, la faccio corta, fatelo e basta.
Perché decidere di leggere così tanti libri, perché non semplicemente “leggere di più”? Penso che avere un obiettivo irraggiungibile come un libro a settimana in realtà aiuta. Per fare un confronto, il corpo reagisce con forza alle grandi ferite, e usa molte energie per guarirle. Si cura meno invece delle piccole ferite, e di conseguenza i tempi di guarigione si allungano. Quindi darsi un obiettivo alto ti aiuterà ad affrontarlo con serietà.
Questo è il primo punto. Datevi un obiettivo irraggiungibile così da mettervi addosso un po’ di pressione.
Un giorno alla volta
In media i libri che ho letto avevano 250-300 pagine. Alcuni erano più voluminosi, altri più sottili. Sono circa quaranta pagine al giorno, che leggo nelle prime ore della giornata. È un obiettivo ragionevole, che fa sembrare meno spaventosa la cifra di 52 libri all’anno. Questo è fondamentale per il vostro stato emotivo, e vi darà la sensazione che è fattibile.
Fatela diventare un’abitudine
In questo momento ho l’abitudine di svegliarmi, fare la doccia e poi fare colazione fuori: rimango seduto al bancone dello stesso bar, bevendo caffè, finché non ho letto le mie quaranta pagine. Ho scelto questo metodo perché non ho molta forza di volontà. Scommetto che molti di voi hanno lo stesso problema, e questo è un modo per trovare il posto giusto per ogni cosa.
Ah, un consiglio: leggete la mattina presto, il prima possibile. Come le pagine del mattino di cui si parla nel libro di Julia Cameron La via dell’artista e gli esercizi di Twyla Tharp (descritti qui), se non lo fate nelle prime ore della giornata, finirete per rimandare. Questo vale per tutte le abitudini: per farle funzionare devono essere inserite in una routine.
Sfruttate ogni momento
I pendolari possono usare il tempo degli spostamenti. Se avete una pausa pranzo, approfittatene. La libertà di poter aprire il libro in qualsiasi momento, e leggere anche solo due pagine, vi aiuterà a rimanere al passo con la lettura, cosa che diventerà il vostro punto di forza e vi darà una certa gratificazione. In più, portarsi avanti nella lettura vi permetterà di guadagnare tempo con i libri più impegnativi, su cui vale la pena soffermarsi di più.
Arrendersi va bene. Più o meno
Se un libro è poco interessante (o è troppo impegnativo), va bene metterlo da parte, per un po’. Nel frattempo ne cominciate un altro più breve, e poi lo riprendete in mano di tanto in tanto, finché non lo avrete letto tutto.
Io l’ho fatto diverse volte quest’anno, il che significa che ho cominciato tra i 60 e i 65 libri e ne ho finiti 54.
È permesso imbrogliare
La scadenza stringe e rischiate di rimanere indietro? È il momento di trovare una scappatoia. Scegliete un libro veloce, che magari avete già letto, o qualcosa di piacevole e leggero.
“Sì, ma questo è imbrogliare”, potreste obiettare. Sono d’accordo. Ma un inganno a breve termine per riuscire a farcela a lungo termine è più importante dell’idea che dobbiamo solo leggere libri come Guerra e pace. Non è così. Lo scopo è migliorarsi la vita, non sentirsi degli incapaci.
A proposito, anche i libri brevi possono essere incredibili.
Non rimanete indietro
Non “fate debiti con voi stessi” e non prendete tempo, pensando di poter recuperare in seguito. La scadenza settimanale vi aiuterà a mantenere il passo con il vostro obiettivo: rimanere indietro, invece, potrebbe farvi dubitare del fatto di potercela fare e, alla fine, spingervi a mollare.
In conclusione
Leggere mi ha reso una persona migliore, più completa e più felice. I libri contengono tutta la saggezza del mondo. Se decidete di provare, questa sfida può davvero aiutarvi a crescere. Quindi cominciate oggi stesso.
 
Ma questo è un pazzo! L'ho pensato appena ho letto l'articolo: "scadenze", "rimanere indietro", "obiettivi" termini che con la lettura, che dovrebbe essere un'attività appassionante e rilassante stridevano veramente. Mancava la fatidica "deadline" e poi sarebbe sembrato un "planning" aziendale in un "meeting" a cui far seguire dei "briefing"....Ma soprattutto la frase "Questo è il primo punto. Datevi un obiettivo irraggiungibile così da mettervi addosso un po’ di pressione" era davvero emblematica della mentalità aziendale.
Poi infatti ho letto la descrizione di chi era l'autore e ho capito: amministratore delegato di un'azienda.....le scadenze autoinventate le aziende devono metterle anche nelle attività più normali della vita reale.....