Pagine

sabato 28 dicembre 2013

Pillola rossa o pillola blu?




Ci sono ultimamente momenti come questo nella mia vita.
Per anni ti sembra che ci sia qualcosa che non quadra, ma è solo una vaga intuizione che non riesci ne a spiegarti e nemmeno addirittura a tradurre in domande esplicite, e poi finalmente trovi qualcuno o qualcosa che fa andare a posto tutti i tasselli del puzzle e tutto diventa chiaro.
 
In questo caso c'era in me da anni una sensazione di fastidio verso l'ambiente in cui lavoravo, ma di volta in volta pensavo che fosse qualcuno dei responsabili a cui rispondevo, alle mansioni che non erano mai quelle giuste, alla mancanza di opportunità. Poi aprendo questo blog ho cominciato a sforzarmi di esplicitare i motivi della mia avversione e già questo è stato un processo molto positivo. Poi ho cominciato a trovare riferimenti, approfondimenti e letteratura che mi hanno fatto capire come effettivamente il mondo del lavoro in azienda era intrinsecamente deviato e che addirittura questo faceva parte di una crisi più ampia della nostra società che si evidenziava in maniera più grave nel mondo dell'azienda perché nasceva proprio dalle logiche di consumo, produzione e profitto che sono alla base dell'organizzazione delle aziende private, ma che man mano si sta propagando ad altri ambiti.
 
Nel corso del prossimo anno vorrei approfondire questi argomenti, ma intanto lascio il link di uno dei documenti più interessanti che ho trovato su questo tema. Si tratta di una dispensa disponibile sul sito del Professor Bartolini dell'Università di Siena che si occupa proprio di studi economici sulla felicità e sul benessere degli individui in cui chiaramente il mondo del lavoro trova uno spazio importante.

martedì 24 dicembre 2013

Pubblico e privato: un confronto?



L'ultimo post sembrerebbe un atto d'accusa verso il pubblico impiego, un po' un luogo comune.
Invece non sono d'accordo.
 
Innanzitutto il lavoro nel pubblico non è sempre così, nella sanità ad esempio medici e infermieri, perennemente sotto organico fanno turni massacranti e in molte università italiane si fa attività sia di ricerca che didattica con pochissimi fondi. Nella pubblica amministrazione effettivamente questo post conferma il sospetto che ci sia una area franca di privilegio, ma credo che le cause siano soprattutto politiche: sono i vertici della catena che hanno interesse che le cose si mantengano così, e nel post viene detto. Questo perchè il rimedio per evitare che ciò accada è che ogni capo servizio sia responsabile dei risultati della sua struttura e che debba garantirli: a quel punto dovrebbe perlomeno evitare che si arrivi agli estremi descritti. Però visto che il modello di una organizzazione basata su questo tipo di meccanismo è proprio il mondo aziendale che descrivo nel blog e che ha di fatto raggiunto livelli di delirio, esclusivamente basati sulle apparenze, sulla "pubblicità del fare", piuttosto che sulla sostanza è ovvio che nessuno all'interno del pubblico si attiva verso tale modello che è evidentemente sclerotico.
 
Quindi la conclusione per me è che entrambi i modelli sono sbagliati, sono gli estremi di una medaglia fallata: il punto è che ci dovrebbe essere un altro modello che comporti che il lavoro, sia pubblico che privato tenda ad altri obiettivi.
Le organizzazioni lavorative dovrebbero a massimizzare il benessere e la soddisfazione delle persone che sono coinvolte e ci sono molti studi che dimostrano che ciò aumenta la produttività e i risultati delle organizzazioni. Intervenire solo sul pubblico con operazioni punitive, di fatto renderebbe sclerotico anche quell'ambiente, senza peraltro renderlo più efficace, anche perchè probabilmente applicherebbe mere regole di profitto in ambiti che non devono operare secondo logiche di profitto (lo stanno facendo nella sanità e di fatto siamo arrivati a pressioni sui medici per limitare la prescrizione di farmaci o di interventi diagnostici alzando la soglia, anche rischiando danni alla salute dei pazienti, come esempio di logiche sbagliate).
 
Grazie all'obiettivo di scrivere e riflettere sul blog, sto approfondendo questi temi e mi sono accorto che c'è una vasta letteratura scientifica su questi temi e ne parlerò nei prossimi post.

giovedì 12 dicembre 2013

Universi paralleli




 

Ricevo e pubblico questo post, che ritengo interessante e su cui torneremo per qualche commento successivamente


Parallelismi al contrario col dipendente pubblico medio  (ispirati dal e in risposta al post "Mors tua, vita mea")

Caro Dipendente Riluttante,
te lo spiego io il mondo del pubblico impiego e lo faccio alla luce di 13 anni in esso (soprav)vissuti e dopo aver cambiato 3 enti diversi di dimensioni diverse, ogni volta mossa dalla speranza che il problema fosse insito nell’ente che lasciavo, che fosse cioè la presenza di quei particolari amministratori incapaci di governare o di quei particolari dipendenti incapaci di lavorare.

Invece no, la disillusione ultima è arrivata dopo un solo giorno trascorso nell’attuale comune di appartenenza (anche se l’idea di “appartenervi” mi fa sempre orrore), quando in un attimo ho riconosciuto le medesime dinamiche che si svolgevano nei precedenti enti da cui ogni volta fuggivo rifiutando l’idea che potesse esistere un “sistema” in tal modo strutturato, che non significa “tollerato” bada bene, ma proprio costruito ad-hoc per permettere che ognuno vivacchi in esso tranquillamente, certo di essersi garantito un posto fisso con il minimo sforzo per 40 e più anni della propria vita.

Infatti nella pubblica amministrazione, al contrario che in azienda (dalle tue descrizioni), lo scopo ultimo della vita lavorativa da dipendente pubblico medio (ahimè la maggioranza) non è quello di “fare carriera”, di sgomitare, anche tramite i “mezzucci” che tu descrivi, per scalare (scusa l’accostamento con l’alpinismo) una qualsivoglia ascesa, o almeno per apparire in mille faccende affaccendato e conquistarsi la nomea di “indispensabile”… No, per il dipendente pubblico medio tutto il desiderabile è già raggiunto il giorno in cui vince il concorso: già, perché l’unica aspirazione del dipendente pubblico medio è quella di impossessarsi del diritto di appoggiare il proprio sedere su quella sedia a lui attribuita con la garanzia che, qualunque cosa faccia o NON FACCIA, nessuno al mondo potrà levargliela da sotto le chiappe. STOP. L’idea di meritarsela (insieme allo stipendio) ogni giorno con impegno, non lo sfiora nemmeno.

Un altro “parallelismo al contrario” con il mondo dell’azienda che, leggendoti, ho riscontrato, è che nella pubblica amministrazione se sei uno che “si agita”, che si fa vedere troppo impegnato alla scrivania o troppo veloce e scattante lungo i corridoi (magari perché, babbeo, fai parte di quel 30% che “traina il carro” e che il mazzo se lo fa per davvero, grazie al quale la baracca, nel bene o nel male, va avanti), se sei uno di questi, dicevo, vieni visto male, vieni considerato un disturbatore, uno che con la propria solerzia mette in risalto l’inettitudine degli altri che invece vorrebbero continuare a starsene tranquilli, invisibili, crogiolati nella loro bambagia fatta delle solite rassicuranti abitudini: frequenti e interminabili pause alla macchinetta del caffè, interessanti resoconti circa l’attività intestinale dei propri figli, piacevoli disquisizioni sul tronista di turno, sull’ospite della D’Urso o sull’ultima puntata di 100 vetrine… per non parlare delle ore su facebook che, quando la lingua si secca, risulta una valida alternativa per trascorrere il tempo.

E a questo punto ti chiederai: ma i loro responsabili, in tutto questo? Ed è qui il bello: sono proprio loro a propinare e promuovere, vuoi con l’esempio vuoi con la condiscendenza, questi comportamenti ben noti a tutti perché un subordinato troppo efficace è fastidioso anche per loro, perché l’inettitudine da tenere occultata è anche la loro. E vuoi mettere che fatica sarebbe per loro impegnarsi a trovare modi efficaci per far lavorare (meglio se bene e in modo efficiente) i propri sottoposti? dovrebbero dimostrare di essere bravi soprintendenti, ma questo nella pubblica amministrazione non conta, anzi, non è proprio contemplato, anzi, non è proprio voluto. Il responsabile di un settore è solo un posto ricoperto e una firma sui documenti che contano.

Il cerchio si chiude quando i suddetti indulgenti capi, per mantenere un simile (malsano ma tanto comodo) equilibrio, permettono ai descritti dipendenti di godere della propria conquistata inutilità concedendo loro privilegi che il famoso 30% può solo sognarsi: 3/4 settimane di ferie consecutive, malattie frequenti senza essere soggetti ai previsti controlli medici, periodi di aspettativa senza bisogno di dare troppe spiegazioni, part-time e orari personalizzati, solitamente disciplinati sulla base di precise condizioni, ma in questi casi elargiti in deroga a tali condizioni.

E quindi eccolo l’ultimo “parallelismo al contrario” (ma “ultimo” solo perché solo oggi ho scoperto il tuo blog): gli orari sono personalizzati solo per alcune categorie (corrispondenti al 70% degli impiegati…), non per garantire una maggiore felicità dei dipendenti che si traduca in maggiore produttività, bensì per assicurarsi che quei dipendenti non facciano "casino" sollevando questioni spinose o semplicemente creando un qualsivoglia tipo di “disturbo” all’equilibrio descritto. Quando io, parte di quel 30% di babbei, ho chiesto un part time temporaneo (con sole 6 ore in meno alla settimana) per un mio periodo di difficoltà, la risposta del mio responsabile è stata: “non è possibile, non saprei come giustificare la riduzione di qualche ora ad una persona che funziona”. Ed eccola l’ultima illuminazione: nella pubblica amministrazione è molto meglio (per tutti) non funzionare!

PS: se un collega dipendente pubblico leggerà il mio post, a seconda della sua reazione alle mie parole, dimostrerà di appartenere alla categoria dei babbei o a quella del dipendente pubblico medio.
 
                                                                                 PubbliDipendente Dissidente 
 
                                                                                                                

sabato 7 dicembre 2013

Errori di ortografia

 


La brillante azienda in cui ha il piacere di lavorare il Dipendente Riluttante ha organizzato una riunione con le sue agenzie commerciali del Centro Sud a Roma, anche se naturalmente non l'ha definita in questo modo, che è troppo ordinario e banale: la denominazione ufficiale è "Touch and go", molto più "aziendalese" naturalmente!
La riunione si tiene in un lussuoso albergo romano e i vari funzionari aziendali si susseguono con le varie presentazioni su quanto sono belli ed efficaci i nuovi prodotti.
Arriva il turno del rampante Responsabile Intermedio che agile e spensierato comincia la sua presentazione con i toni prolissi e enfatici che gli sono propri e in una delle diapositive iniziali (che però qui si chiamano "slides") si trova un elenco puntato così strutturato.

- Approcio A: ......
- Approcio B: .......
- Approcio C: .......

Momento di imbarazzo in sala, perlomeno fra quelli che si accorgono dello strafalcione, e poi la presentazione prosegue, senza che l'agile Responsabile si sia minimamente accorto degli errori ortografici, che non si possono neanche scusare come refusi, visto che erano ripetuti ben tre volte a inizio di frase.
E del resto è normale che in azienda, dove la cultura è disprezzata, anche i banali errori ortografici di un relatore che dovrebbe rappresentare l'immagine dell'azienda in pubblico non siano ritenuti di particolare gravità.