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venerdì 12 aprile 2013

Un mondo perfetto







Il tema di questo blog è quello di osservare e mostrare i comportamenti all’interno di quella realtà lavorativa che è l’azienda industriale. La maggior parte delle volte, i post saranno ironici, a volte satirici, ma comunque quasi sempre critici.
A questo atteggiamento si potrebbe fare la solita obiezione che la critica generalizzata può diventare poco costruttiva, perché di fatto farebbe sembrare che non vada mai bene niente e che non ci sono aspetti positivi in queste realtà o che non ci siano modelli alternativi validi.
Alla prima critica è facile rispondere che evidenziare gli aspetti positivi non è il tema del blog, che comunque nasce dalla mia presa di coscienza di essere probabilmente incompatibile con i comportamenti e gli atteggiamenti che dominano in azienda e a cui si adattano quelli che invece si trovano a proprio agio all’interno di questa realtà (e che di solito sono quelli che fanno più carriera per ovvi motivi).
Alla seconda critica invece l’obiezione è che modelli positivi esistono, soprattutto all’estero, o in Italia in realtà probabilmente un po’ più internazionalizzate, o in aziende non industriali dove la mentalità, anche per ragioni pratiche e storiche è un po’ diversa (come approfondirò in un successivo post).
Qui voglio citare l’esempio più eclatante: quello della Patagonia, azienda di abbigliamento sportivo, fondata da Yvon Chouinard che è stato uno dei più importanti alpinisti americani e mondiali negli anni 60. Patagonia ha un atteggiamento molto etico su tante questioni, sia di gestione interna, che verso il mondo esterno e Chouinard ha scritto un libro per parlare di questo.
Quello che riporto è un estratto che riassume i temi più importanti del libro e che di fatto capovolge proprio molti di quelli atteggiamenti che invece io critico nelle aziende.
 

LET MY PEOPLE GO SURFING
Sono un imprenditore da quasi cinquant’anni.
E’ difficile per me pronunciare queste parole, tanto quanto sarebbe difficile per qualcuno ammettere di essere un alcolista o un avvocato: non ho mai stimato questa professione. E’ infatti proprio il mondo degli affari il maggior responsabile della distruzione della natura, dell’annientamento di molte culture indigene, di un’ingiusta distribuzione delle risorse e dell’inquinamento del pianeta con le emissioni delle sue fabbriche.
Tuttavia è vero che il mondo degli affari produce cibo, cura le malattie, regola la popolazione, da lavoro alla gente e, in generale, arricchisce le nostre vite. E può ottenere tutto questi risultati positivi e ricavarne anche un profitto senza però per questo perdere la sua anima, ed è proprio questo l’argomento che voglio affrontare quì.
Come molti coloro che hanno vissuto la loro giovinezza nell’America degli anni Sessanta, il classico sogno di fare più quattrini dei propri genitori o di cominciare un’attività, svilupparla più in fretta possibile, renderla famosa e ritirarsi sui campi da golf non mi ha mai attirato. I miei valori sono il prodotto di una vita a contatto con la natura e della passione per quelli che alcuni chiamano "sport estremi"; mia moglie Malinda e io, insieme ad altri testardi colleghi di Patagonia, abbiamo fatto tesoro delle lezioni imparate praticando questi sport e le abbiamo applicate per mandare avanti un’impresa.
La mia azienda, Patagonia Inc., è un esperimento: esiste per sfidare i giudizi convenzionali e per presentare un nuovo tipo di azienda responsabile che dimostri che il modello corrente di capitalismo, che presuppone una crescita illimitata, non è sostenibile e deve essere sostituito.
Ho sempre evitato di pensare a me stesso come a un imprenditore: io ero un alpinista, un surfista, un kayakista e un fabbro che si divertiva a fabbricare attrezzi di buona qualità e vestiti pratici come li volevamo noi e i nostri amici. Tuttavia alla fine degli anni 70, io e mia moglie, ci trovavamo ad avere un’azienda con un sacco di vincoli, con impiegati che a loro volta avevano famiglia e che dipendevano dal nostro avere o meno successo.
Così dopo aver riflettuto sulle nostre responsabilità e sui nostri problemi finanziari, un giorno mi colpì la consapevolezza che io ero un imprenditore e lo sarei stato probabilmente per molto tempo. Divenne perciò chiaro che per sopravvivere in quel gioco, dovevamo imparare a giocare seriamente, ma sapevo però che non mi sarebbe mai piaciuto giocare secondo le normali regole del mondo degli affari: volevo essere il più possibile diverso da quei pallidi cadaveri in giacca e cravatta che vedevo nelle pubblicità. Se dovevo essere un uomo d’affari lo sarei stato a modo mio e avevo bisogno di essere sostenuto da valide motivazioni..
Una cosa assolutamente non volevo che cambiasse, anche se eravamo costretti a fare le cose seriamente: il lavoro doveva essere un divertimento per tutti, tutti i giorni.
Tutti dovevano venire al lavoro a piedi e fare le scale due alla volta, avevamo bisogno di essere circondati da amici e tutti dovevamo poter indossare quello che li pareva e anche stare scalzi; tutti avevano bisogno di orari flessibili per poter andare a fare surf quando c’erano le onde giuste o a sciare quando c’era la neve, o poter stare a casa ad accudire un bambino con l’influenza.
Dovevamo rendere meno netta la divisione tra lavoro, divertimento e famiglia.
Su insistenza di Malinda istituimmo anche un asilo nido in sede: la vicinanza dei bambini che giocavano in cortile e pranzavano coi genitori aiutava a mantenere l’atmosfera generale molto più familiare che corporativa e inoltre sappiamo che i genitori sono più produttivi se non sono preoccupati per i loro figli: pensiamo che le scelte che molte persone che lavorano fanno e che contrappongono la carriera alla famiglia, di fatto non dovrebbero esistere.
Perciò da allora la nostra politica è sempre stata quella di lasciare ai dipendenti la possibilità di gestire in modo flessibile il loro orario purché il lavoro venisse fatto e non si creassero disagi per gli altri. Un surfista serio non programma di andare a surfare Giovedì pomeriggio alle due: va a surfare quando ci sono le onde, la corrente e il vento adatti. E uno sciatore va a sciare sulla neve fresca quando c’è la neve fresca!
Ciò ha portato alla nostra politica di flessibilità "Let my people go surfing" e i dipendenti possono approfittarne per prendere buone onde o andare ad arrampicare un pomeriggio o anche per arrivare a casa in tempo per accogliere i figli quando scendono dallo scuolabus.
Oltre a ciò, mi resi conto che la nostra azienda riproduceva in scala ridotta ciò che stava succedendo in tutto il mondo e per questo avevamo bisogno di linee guida che ci dessero l’ispirazione necessaria per trovare la giusta strada da seguire: così ci riunimmo e stilammo insieme queste linee guida che chiamammo "filosofie", una per ognuno dei nostri maggiori settori e funzioni.
Tali filosofie sono le seguenti e non hanno un ordine di importanza.
  • Tutte le decisioni della società devono essere prese tenendo presente il contesto di crisi ambientale e perciò i nostri sforzi devono essere volti a non causare danni e dove possibile le nostre azioni devono contribuire a ridurre il problema.

  • Si deve prestare la massima attenzione alla qualità del prodotto, definita da criteri di resistenza, impiego minimo di risorse naturali, multifunzionalità, velocità di deperimento. L’esigenza di rispondere alle mode del momento è espressamente considerata non pertinente ai valori dell’azienda.

  • Cerchiamo di trarre profitto dalla nostra attività evitando tuttavia che questo diventi l’obiettivo primario. In ogni caso la crescita e l’espansione non sono valori fondamentali di questa azienda.

  • Per contribuire ad arginare ogni conseguenza negativa per l’ambiente che possa derivare dalla nostra attività, ci imponiamo una tassa annuale dell’1 % sulle vendite o del 10 % sui profitti, a seconda di quale sia il maggiore.

  • A tutti i livelli operativi l’azienda incoraggia prese di posizione attive che rappresentino i nostri valori. Questo allo scopo di promuovere attività che influenzino la più vasta comunità imprenditoriale, affinché anche essa modifichi e corregga i propri valori e il proprio comportamento.
Il sogno americano è quello di iniziare un’attività, farla crescere per venderla e ritirarsi. Per questo investimenti di capitale a lungo termine per la formazione del personale, per l’accudimento dei bambini, per il controllo delle emissioni inquinanti e le agevolazioni per alleggerire il lavoro sono tutti fattori negativi per questo obiettivo a breve termine.
Quando però si esce dall’ottica che un’azienda è un prodotto da vendere tutte le future decisioni ne sono influenzate e i proprietari o i responsabili si rendono conto che, dato che la società vivrà più a lungo di loro, essi hanno responsabilità anche al di là della linea del traguardo.
Ormai si è creato un certo vuoto con il declino di così tante istituzioni che erano solite guidare le nostre vite, come i circoli sociali, le religioni, le squadre sportive, il vicinato e le famiglie nucleari, tutte cose che avevano un effetto aggregante e che davano il senso di appartenenza e la consapevolezza di lavorare per uno scopo comune. Tuttavia un’azienda può aiutare a colmare questo vuoto a patto che mostri ai suoi dipendenti e ai suoi clienti che si rende conto delle proprie responsabilità etiche e può contribuire al bene comune.
Patagonia non sarà mai del tutto responsabile da punto di vista sociale e non fabbricherà mai un prodotto del tutto sostenibile e assolutamente non dannoso.
Ma si impegnerà sempre a cercare di farlo.
 
 

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