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martedì 30 aprile 2013

Un piccolo campionario di fesserie





Forse proprio a causa della enorme superficialità che regna sovrana in azienda, in questi ambienti imperversano i luoghi comuni, che sono appunto un frutto dell’atteggiamento di semplificazione e di generalizzazione.
Una forma che ha particolare successo in azienda è quella delle massime o degli aforismi che di solito i quadri direttivi amano esporre sulle loro scrivanie d’ordinanza e che costituiscono di solito l’unico aspetto personalizzante in uffici di solito “allineati e coperti”. Queste massime sono sempre dei capolavori di semplificazione della realtà, dove sfumature più complesse, che costringono però ad analisi più profonde, sono, come avevamo già visto, aborrite.
Le più diffuse sono quelle che seguono, dove tra parentesi c’è il reale significato o l’effetto a cui vogliono mirare: l’elenco non è esaustivo e si potrebbe via via arricchirlo con altre perle (e se volete proporne anche voi, siete i benvenuti)

- Non esistono problemi, ma solo opportunità (frase assurda, ma molto apprezzata da quadri e dirigenti per giustificare il proprio lavoro)

- Sapere è potere (ne so più di voi)

- Sei qui con la soluzione o sei parte del problema? (sei venuto a rompermi le balle?)

- Lavorate meno, lavorate meglio! (slogan utilizzato dai capi per farvi rimanere di più in ufficio)

- Tutto dipende dall’organizzazione (è tutta colpa vostra che non sapete organizzarvi)

- Un problema non può essere risolto dallo stesso tipo di atteggiamento che l’ha creato (sarebbe ora di licenziare qualcuno)

- Siate affamati, siate folli (mi sento figo a citare Jobs, ma non provate a prendere iniziative senza consultarmi)

sabato 27 aprile 2013

L'insostenibile pesantezza dell'approfondimento






L'azienda ama avere al suo interno un ambiente in perenne fibrillazione, ama che il personale di ogni livello salti nervosamente da un'attività all'altra, magari senza riuscire a concluderne nessuna. Sicuramente un simile ambiente non e' quello che sembrebbe piu' adatto al lavoro intellettuale, ma solo così i vari responsabili ad ogni livello, hanno la sensazione di completa saturazione delle risorse all'interno delle loro strutture e riescono a calmare la loro perenne ansia di controllo
Una naturale conseguenza in un simile contesto e' che diventa di capitale importanza mantenere su qualsiasi argomento un approccio assolutamente generalista e quindi l'imperativo categorico che viene nervosamente trasmesso lungo la catena gerarchica e' quello di evitare accuratamente di andare a fondo nelle cose.

Nell'Università, nella Sanita', nelle professioni tecniche, in quelle giuridiche, nell'insegnamento insomma in qualsiasi altro ambiente di lavoro approfondire argomenti inerenti la propria attivita', immergersi nei dati, cercare riferimenti, studiare la letteratura di settore e' non solo ben visto, ma e' incoraggiato perche' di solito e' indispensabile per svolgere il proprio lavoro. In azienda invece serpeggia il terrore costante di non avere tempo per andare a fondo delle cose, che invece devono essere svolte in velocita' e con la massima superficialita' possibile: in questo ambiente chi approfondisce, invece di essere stimato, viene accusato di stare rallentando i tempi e di rischiare di mancare qualche scadenza, di solito autoimposta e autoinventata.
Poco importa che spesso così facendo la qualità del lavoro ne guadagna e che in realtà di occasioni di rallentamento ce ne sono miriadi e di solito create internamente da stati di falsa urgenza che si propagano come onde all'interno della struttura.

Eventuali approfondimenti che fossero indispensabili vengono tollerati solo in alcune isole franche, come i reparti informatici o quelli di progettazione elettronica, che comunque sono percepiti come mali necessari e in ogni caso lontani dal cuore dell'attività dell'azienda metalmeccanica classica. Se, a volte, l'azienda e' costretta suo malgrado a riconoscere l'indispensabilita' di un approfondimento, o, Dio ci perdoni, l'utilità di uno specialista per qualche insormontabile problema, allora preferisce delocalizzare all'esterno questa attività: solo in questo modo riesce a calmare l'angoscia di dover pagare qualcuno che impiega parte del suo tempo a studiare invece che girare come una trottola impazzita. Così infatti si illude di pagare solo la parte che le interessa e poco importa se di solito i costi sono doppi o tripli della stessa attività svolta da interno

E' chiaro che un ambiente lavorativo che segua queste regole, diventa ben presto caratterizzato da una poverta' intellettuale assolutamente sconfortante, ma sembra che in azienda nessuno dei quadri direttivi si preoccupi di cio'. E' addirittura evidente che nessuno nemmeno si accorge di questo stato di cose mentre al contrario viene enormemente apprezzato dalla gerarchia aziendale l'enorme beneficio di non dover assistere allo spettacolo evidentemente indecoroso e assolutamente insopportabile di un dipendente che trascorre ore intento ad approfondire un problema.
E per di piu' tutto ciò in orario di lavoro!


mercoledì 24 aprile 2013

Riunioni







Una delle verità più accuratamente nascoste in azienda è che la maggioranza dei dirigenti non ha in realtà molto di importante da fare a parte controllare i propri dipendenti, trasmettere loro un costante senso d'ansia (utilissimo per rafforzare l'attaccamento all'azienda), gestire tutta la cartaccia circolante e disegnare creativi schemi alla lavagnetta.
Ed è così che fioriscono le riunioni fiume, di solito assolutamente inutili e comunque sicuramente troppo sopravvalutate: quindi l'immagine scherzosa d'apertura non è poi così lontana dalla vita reale!


lunedì 22 aprile 2013

Il gergo aziendale


Uno dei fattori che saltano più all'occhio in azienda e' quello della lingua slogan che si parla in questo ambiente: l'aziendalese!

Potremmo dire che l'aziendalese e' un linguaggio che di fatto uniforma completamente ogni individualismo e ogni stile di espressione che altrimenti potrebbe emergere, e probabilmente questo e' uno dei suoi scopi impliciti. Ma se questo è il primo effetto che si nota di questo strano idioma, via via che lo si esamina più da vicino (o che lo si subisce) emergono altri aspetti, ugualmente caratterizzanti.
Innanzitutto, la lingua dell'azienda complica ciò che potrebbe essere semplice: usa "inizializzare" invece di cominciare, verbo evidentemente troppo banale, "finalizzare" invece che terminare, forse troppo comune, "posizionare" invece del troppo triviale porre.


Un secondo aspetto è  quello che l’aziendalese ha l’effetto di dare più importanza di quanto non abbiano alle persone in azienda, o di enfatizzare anche le azioni più semplici.
E così fa largo uso di verbi come "coordinare", "ottimizzare" e "supervisionare" al posto dei più umili eseguire e fare. Inoltre utilizza con grande generosità la desinenza in "enza": pertinenza, competenza, esperienza, efficienza, coerenza, eccellenza, tutte parole che  trasmettono l'idea di grande…. importanza.

L’azienda poi nell’evoluzione del proprio linguaggio considera la grammatica un relitto antiquato, usa in grande profusione termini tecnici e amministrativi, ma soprattutto ama profondamente i trasferimenti di significato. Ad esempio il verbo "declinare", di solito usato per rifiutare inviti o negli esercizi di grammatica latina viene utilizzato per esprimere concetti con non gli sono propri: "declinare" un marchio, un messaggio, un valore, significa adottare questi elementi sotto altre forme e situarli più in alto.
Allo stesso modo l'imperversante "soluzionare" rimpiazza il casareccio risolvere, perché fornisce in se il concetto di soluzione.

Infine, l’aspetto forse più eclatante, e se vogliamo sconfortante, è che la lingua dell'azienda e' intrinsecamente ibridata con l'inglese. I suoi sacerdoti, che di solito sono i dirigenti, gli aspiranti tali o i migliori tirapiedi di queste due categorie, amano alla follia inventare sempre nuovi neologismi utilizzando la lingua di Shakespeare e poco importa se spesso emergono termini poco corretti o se esistono termini analoghi e più semplici nella nostra amata lingua madre: basta disseminarli su "slides"e "speech" e il gioco e' fatto.

Così "packaging" sostituisce imballaggio, "report" relazione, "feedback" ritorno e su tutto troneggia "benchmarking" al posto dell'umile confronto.
Ma il peggio avviene quando l'aziendalese non pago dell'ibridazione nelle frasi, si spinge  fino ad ibridare le parole stesse. E così nascono terribili termini come "skillato" per indicare un individuo con capacità, "matchare" per far corrispondere due grandezze , "sharare" per il semplice condividere o il terrificante “performante”....

E in tutto questo delirio lessicale al povero dipendente riluttante, tramortito dall'ultima brillante proiezione di slides di power point, o da interventi fotocopia di più ligi impiegati allineati forse non resta davvero che giocare al bingo aziendale.....

venerdì 19 aprile 2013

Un caso di studio








Ritorno sul tema della retorica del gioco di squadra in azienda, che viene continuamente richiamata, anche se è evidente che esiste una fortissima competizione che si gioca soprattutto fra gli enti interni. Questo non avviene per malfunzionamenti, ma proprio per la dinamica fisiologica dell'organizzazione del lavoro all'interno delle strutture aziendali e degli obiettivi che vengono dati ai singoli reparti che la maggior parte delle volte creano questo stato. Ogni ente cerca di raggiungere i propri obiettivi specifici che a volte si scontrano con quelli degli altri. I vertici giudicano sulla base di questi obiettivi e per cui se un ente non riesce a raggiungerli a causa di un altro ente si crea il conflitto, con buona pace del gioco di squadra e della competizione sul mercato con altre aziende, di cui, a parte i commerciali che operano direttamente sul campo, in azienda non frega una benemerita mazza a nessuno.

In questo post, volevo fare un esempio concreto di questo.
In una precedente azienda lavoravo in Ricerca e Sviluppo e dovevamo progettare un nuovo prodotto in cui uno degli obiettivi fondamentali era ridurre il costo rispetto all'analogo prodotto precedente. Per cui si studiavano soluzioni più efficaci e naturalmente si chiedevano delle offerte a vari fornitori di componenti o semilavorati. A un certo punto ci siamo accorti che l'Ufficio Acquisti inseriva nel sistema gestionale non i costi che avevamo ottenuto noi, ma costi leggermente maggiorati, questo perchè loro avevano l'obiettivo di acquistare durante l'anno a un prezzo minore di quello inserito a sistema e quindi, prevedendo aumenti dovuti a vari fattori, si cautelavano inserendo un costo iniziale più alto. Questo faceva si che loro erano facilitati nel raggiungere i loro obiettivi, mentre noi vedevamo vanificati i nostri. Questo ha causato malumori e litigi, ma soprattutto il contrapporsi di due gruppi, in cui "noi" eravamo "noi" e "loro" erano "loro".

Lo spirito di squadra "aziendale"? Mah!

lunedì 15 aprile 2013

L'ora d'aria







Accade ogni volta.

Di solito avviene per caso, una frase buttata là, un commento, o il racconto di qualche conoscente ed emerge qualcuna delle attività che spesso pratico in pausa pranzo. Ed immancabilmente il collega o la collega di ufficio con cui sto parlando mi guarda come se fossi un esemplare raro di una specie in via di estinzione, sorride, scuote la testa, dice che dovrebbe provarci, ma sempre si allontana con in testa l'idea evidente di aver parlato con un tipo strano che fa cose bizzarre.

Io invece non mi sento strano, eppure da quando ho cominciato a lavorare, ma forse anche prima, ho sempre cercato di non trascorrere la pausa pranzo in ufficio, o perlomeno di farlo raramente. Di solito chi lavora in questi ambienti va a mensa più velocemente possibile per evitare la fila, mangia abbastanza rapidamente e poi torna in ufficio a giocare al solitario. I più intellettuali leggono il giornale o un libro, ma sempre rimanendo nell'ambiente.
Io invece ho sempre avuto il bisogno perlomeno di uscire, anche perché, avendo sempre ruoli di livello medio alto, rimanendo i vari responsabili non si facevano scrupoli a chiedere questioni lavorative o comunque non capire che si era in pausa e mal considerare attività ludiche.

Comunque la pausa pranzo è sempre stata la mia ora d'aria, anzi un momento di assoluta libertà che mi apparteneva più di altri, perchè libero da impegni di qualsiasi genere (famigliari, lavorativi, etc.). E per questo ho sempre cercato di inserirci attività più svariate: palestra, jogging, ciclismo, fin dall'inizio e poi via via altre che diventavano possibili. Visione di film con lettori portatili, escursioni sui sentieri delle montagne dietro l'azienda, veloci corse per andare ad arrampicare in qualche palestra di roccia delle vicinanze, relax in piscina o al mare l'estate, ma anche quando è stato possibile, pranzi a casa, sonnellini pomeridiani, pulizie della casa....
Per questo ho cercato sempre di avere la pausa lunga, un'ora e mezza a volte allungabile a un'ora e tre quarti, vagheggiando di ottenere prima o poi il sogno delle due ore. Firmerei domani per fare l'orario dei negozi e godermi quattro ore libere in mezzo alla giornata. A volte inserisco un'ora di ferie per i programmi più impegnativi e ambiziosi, ma devo centellinarli.

Mi sono spesso interrogato su questa mia esigenza, non è necessità di evasione, il mio lavoro normalmente mi piace, in certi casi addirittura mi appassiona. E’ qualcosa di diverso, è la voglia di non suddividere in compartimenti la settimana lavorativa in cui si accumula negatività, e il fine settimana in cui seguire le proprie passioni o godere di momenti di relax, ma invece di mischiarli insieme nelle stesse giornate. E’ la voglia di godere delle giornate di sole, anche d’inverno, quando invece uscendo dal lavoro è già buio e farlo anche nei giorni della settimana senza attendere la Domenica.
Lavorare, poi uscire da quel contesto, mischiare una delle tante attività e poi tornare al lavoro ancora più carichi ed entusiasti e magari tirare anche tardi è una cosa che mi ha sempre dato un enorme benessere. In azienda quando emerge mi guardano tutti come un marziano perché lì normalmente per alcuni, soprattutto direttivi o aspiranti tali, vige la dedizione totale al lavoro come unico aspetto della vita, per gli altri invece c’è la rassegnazione di dover dedicare quel tempo al lavoro per poi aspettare un altro tempo per dedicarlo agli altri aspetti della vita che si amano di più. Mischiare le cose è incomprensibile e per questo ne parlo poco, molte volte lo nascondo e invento frottole per coprire le pause pranzo più audaci.

Attenuare le barriere fra la vita lavorativa e gli altri aspetti della vita è invece proprio uno dei punti di cui parla Chouinard nel suo libro sulla Patagonia e sono assolutamente convinto che migliorerebbe la soddisfazione dei lavoratori, li renderebbe più legati a un’azienda (senza bisogno di aumentare stipendi) e sicuramente aumenterebbe la produttività.
E’ un concetto semplicissimo, ci sono testimonianze, si leggono articoli su questi argomenti eppure nelle nostre aziende non riesce a passare.

venerdì 12 aprile 2013

Un mondo perfetto







Il tema di questo blog è quello di osservare e mostrare i comportamenti all’interno di quella realtà lavorativa che è l’azienda industriale. La maggior parte delle volte, i post saranno ironici, a volte satirici, ma comunque quasi sempre critici.
A questo atteggiamento si potrebbe fare la solita obiezione che la critica generalizzata può diventare poco costruttiva, perché di fatto farebbe sembrare che non vada mai bene niente e che non ci sono aspetti positivi in queste realtà o che non ci siano modelli alternativi validi.
Alla prima critica è facile rispondere che evidenziare gli aspetti positivi non è il tema del blog, che comunque nasce dalla mia presa di coscienza di essere probabilmente incompatibile con i comportamenti e gli atteggiamenti che dominano in azienda e a cui si adattano quelli che invece si trovano a proprio agio all’interno di questa realtà (e che di solito sono quelli che fanno più carriera per ovvi motivi).
Alla seconda critica invece l’obiezione è che modelli positivi esistono, soprattutto all’estero, o in Italia in realtà probabilmente un po’ più internazionalizzate, o in aziende non industriali dove la mentalità, anche per ragioni pratiche e storiche è un po’ diversa (come approfondirò in un successivo post).
Qui voglio citare l’esempio più eclatante: quello della Patagonia, azienda di abbigliamento sportivo, fondata da Yvon Chouinard che è stato uno dei più importanti alpinisti americani e mondiali negli anni 60. Patagonia ha un atteggiamento molto etico su tante questioni, sia di gestione interna, che verso il mondo esterno e Chouinard ha scritto un libro per parlare di questo.
Quello che riporto è un estratto che riassume i temi più importanti del libro e che di fatto capovolge proprio molti di quelli atteggiamenti che invece io critico nelle aziende.
 

LET MY PEOPLE GO SURFING
Sono un imprenditore da quasi cinquant’anni.
E’ difficile per me pronunciare queste parole, tanto quanto sarebbe difficile per qualcuno ammettere di essere un alcolista o un avvocato: non ho mai stimato questa professione. E’ infatti proprio il mondo degli affari il maggior responsabile della distruzione della natura, dell’annientamento di molte culture indigene, di un’ingiusta distribuzione delle risorse e dell’inquinamento del pianeta con le emissioni delle sue fabbriche.
Tuttavia è vero che il mondo degli affari produce cibo, cura le malattie, regola la popolazione, da lavoro alla gente e, in generale, arricchisce le nostre vite. E può ottenere tutto questi risultati positivi e ricavarne anche un profitto senza però per questo perdere la sua anima, ed è proprio questo l’argomento che voglio affrontare quì.
Come molti coloro che hanno vissuto la loro giovinezza nell’America degli anni Sessanta, il classico sogno di fare più quattrini dei propri genitori o di cominciare un’attività, svilupparla più in fretta possibile, renderla famosa e ritirarsi sui campi da golf non mi ha mai attirato. I miei valori sono il prodotto di una vita a contatto con la natura e della passione per quelli che alcuni chiamano "sport estremi"; mia moglie Malinda e io, insieme ad altri testardi colleghi di Patagonia, abbiamo fatto tesoro delle lezioni imparate praticando questi sport e le abbiamo applicate per mandare avanti un’impresa.
La mia azienda, Patagonia Inc., è un esperimento: esiste per sfidare i giudizi convenzionali e per presentare un nuovo tipo di azienda responsabile che dimostri che il modello corrente di capitalismo, che presuppone una crescita illimitata, non è sostenibile e deve essere sostituito.
Ho sempre evitato di pensare a me stesso come a un imprenditore: io ero un alpinista, un surfista, un kayakista e un fabbro che si divertiva a fabbricare attrezzi di buona qualità e vestiti pratici come li volevamo noi e i nostri amici. Tuttavia alla fine degli anni 70, io e mia moglie, ci trovavamo ad avere un’azienda con un sacco di vincoli, con impiegati che a loro volta avevano famiglia e che dipendevano dal nostro avere o meno successo.
Così dopo aver riflettuto sulle nostre responsabilità e sui nostri problemi finanziari, un giorno mi colpì la consapevolezza che io ero un imprenditore e lo sarei stato probabilmente per molto tempo. Divenne perciò chiaro che per sopravvivere in quel gioco, dovevamo imparare a giocare seriamente, ma sapevo però che non mi sarebbe mai piaciuto giocare secondo le normali regole del mondo degli affari: volevo essere il più possibile diverso da quei pallidi cadaveri in giacca e cravatta che vedevo nelle pubblicità. Se dovevo essere un uomo d’affari lo sarei stato a modo mio e avevo bisogno di essere sostenuto da valide motivazioni..
Una cosa assolutamente non volevo che cambiasse, anche se eravamo costretti a fare le cose seriamente: il lavoro doveva essere un divertimento per tutti, tutti i giorni.
Tutti dovevano venire al lavoro a piedi e fare le scale due alla volta, avevamo bisogno di essere circondati da amici e tutti dovevamo poter indossare quello che li pareva e anche stare scalzi; tutti avevano bisogno di orari flessibili per poter andare a fare surf quando c’erano le onde giuste o a sciare quando c’era la neve, o poter stare a casa ad accudire un bambino con l’influenza.
Dovevamo rendere meno netta la divisione tra lavoro, divertimento e famiglia.
Su insistenza di Malinda istituimmo anche un asilo nido in sede: la vicinanza dei bambini che giocavano in cortile e pranzavano coi genitori aiutava a mantenere l’atmosfera generale molto più familiare che corporativa e inoltre sappiamo che i genitori sono più produttivi se non sono preoccupati per i loro figli: pensiamo che le scelte che molte persone che lavorano fanno e che contrappongono la carriera alla famiglia, di fatto non dovrebbero esistere.
Perciò da allora la nostra politica è sempre stata quella di lasciare ai dipendenti la possibilità di gestire in modo flessibile il loro orario purché il lavoro venisse fatto e non si creassero disagi per gli altri. Un surfista serio non programma di andare a surfare Giovedì pomeriggio alle due: va a surfare quando ci sono le onde, la corrente e il vento adatti. E uno sciatore va a sciare sulla neve fresca quando c’è la neve fresca!
Ciò ha portato alla nostra politica di flessibilità "Let my people go surfing" e i dipendenti possono approfittarne per prendere buone onde o andare ad arrampicare un pomeriggio o anche per arrivare a casa in tempo per accogliere i figli quando scendono dallo scuolabus.
Oltre a ciò, mi resi conto che la nostra azienda riproduceva in scala ridotta ciò che stava succedendo in tutto il mondo e per questo avevamo bisogno di linee guida che ci dessero l’ispirazione necessaria per trovare la giusta strada da seguire: così ci riunimmo e stilammo insieme queste linee guida che chiamammo "filosofie", una per ognuno dei nostri maggiori settori e funzioni.
Tali filosofie sono le seguenti e non hanno un ordine di importanza.
  • Tutte le decisioni della società devono essere prese tenendo presente il contesto di crisi ambientale e perciò i nostri sforzi devono essere volti a non causare danni e dove possibile le nostre azioni devono contribuire a ridurre il problema.

  • Si deve prestare la massima attenzione alla qualità del prodotto, definita da criteri di resistenza, impiego minimo di risorse naturali, multifunzionalità, velocità di deperimento. L’esigenza di rispondere alle mode del momento è espressamente considerata non pertinente ai valori dell’azienda.

  • Cerchiamo di trarre profitto dalla nostra attività evitando tuttavia che questo diventi l’obiettivo primario. In ogni caso la crescita e l’espansione non sono valori fondamentali di questa azienda.

  • Per contribuire ad arginare ogni conseguenza negativa per l’ambiente che possa derivare dalla nostra attività, ci imponiamo una tassa annuale dell’1 % sulle vendite o del 10 % sui profitti, a seconda di quale sia il maggiore.

  • A tutti i livelli operativi l’azienda incoraggia prese di posizione attive che rappresentino i nostri valori. Questo allo scopo di promuovere attività che influenzino la più vasta comunità imprenditoriale, affinché anche essa modifichi e corregga i propri valori e il proprio comportamento.
Il sogno americano è quello di iniziare un’attività, farla crescere per venderla e ritirarsi. Per questo investimenti di capitale a lungo termine per la formazione del personale, per l’accudimento dei bambini, per il controllo delle emissioni inquinanti e le agevolazioni per alleggerire il lavoro sono tutti fattori negativi per questo obiettivo a breve termine.
Quando però si esce dall’ottica che un’azienda è un prodotto da vendere tutte le future decisioni ne sono influenzate e i proprietari o i responsabili si rendono conto che, dato che la società vivrà più a lungo di loro, essi hanno responsabilità anche al di là della linea del traguardo.
Ormai si è creato un certo vuoto con il declino di così tante istituzioni che erano solite guidare le nostre vite, come i circoli sociali, le religioni, le squadre sportive, il vicinato e le famiglie nucleari, tutte cose che avevano un effetto aggregante e che davano il senso di appartenenza e la consapevolezza di lavorare per uno scopo comune. Tuttavia un’azienda può aiutare a colmare questo vuoto a patto che mostri ai suoi dipendenti e ai suoi clienti che si rende conto delle proprie responsabilità etiche e può contribuire al bene comune.
Patagonia non sarà mai del tutto responsabile da punto di vista sociale e non fabbricherà mai un prodotto del tutto sostenibile e assolutamente non dannoso.
Ma si impegnerà sempre a cercare di farlo.
 
 

giovedì 11 aprile 2013

Alpinismo e azienda?





In azienda, come ho descritto nel precedente post, regna incontrastata la retorica. E’ un vizio comune di molti gruppi e organizzazione, ma in azienda c’è l’aggravante della superficialità: si prendono ad esempio modelli, ma spesso questi modelli non sono corrispondenti alla realtà.
Qualche tempo fa mi è capitato fra le mani questo libro

La determinazione del singolo e della squadra sono le chiavi del successo sul K2 come in azienda.
L'alpinista come il dirigente,la vetta come l'obbiettivo. La strategia per raggiungerli ed il calcolo dei rischi. La montagna non è solo poesia : è soprattutto scuola di vita e preziosa consigliera nelle questioni d'affari.

In questo caso la nausea che mi assale di solito di fronte alla retorica dilagante è stata ancora più forte perché l’alpinismo lo conosco bene, dato che lo pratico da anni con passione.

Per questo sono assolutamente d’accordo che questa disciplina possa essere una ottima scuola e in molti casi una metafora della vita, ma inserita in questo contesto diventa una grossa e retorica fesseria per il semplice motivo che da tempo immemorabile in alpinismo non conta la vetta, ma la via. E' fondamentale non dove si arriva, ma il modo in cui lo si fa e quindi il punto principale che non mi convince è che a mio parere non esiste un parallelo dell'etica alpinistica nella metafora alpinismo-azienda.
L'etica alpinistica è una serie di regole autoimposte e discusse di volta in volta (senza nessuna autorità che le emana) che servono a mantenere il giusto compromesso fra ingaggio e possibilità di sopravvivenza (o di successo), non stiamo parlando perciò di regole legali.

Infine mi sembra che il fatto di aver considerato solo l’alpinismo delle vecchie spedizioni e non quello fatto in "stile alpino" da cordate autosufficienti di due o tre persone abbia di fatto escluso l'alpinismo odierno propriamente detto: l'idea di alpinismo che mi sembra esca da questo libro è invece quella anacronistica delle spedizioni degli anni 50 e 60, che poi è quella che fa presa fra chi non conosce l'alpinismo e trova terreno fertile in un ambiente, quello aziendale, in cui regna la retorica e la mancanza di approfondimento.


La grande menzogna del gioco di squadra in azienda






Da qualche tempo lavoro in una grande azienda in Veneto dove ho trovato amplificate a 1000 le dinamiche che avevo intuito precedentemente in altre aziende.
Da sempre in azienda viene propinata la retorica del gioco di squadra, in realtà io ho sempre notato che la competizione e la conflittualità in azienda non è mai rivolta verso l'esterno, ma piuttosto verso l'interno. Si compete o addirittura si innescano conflitti fra reparti diversi della stessa azienda, perchè ognuno tende a scaricare colpe su altri e a coprirsi le spalle da attacchi analoghi.

Nelle aziende in cui avevo lavorato prima questo avveniva in misura però più tenue, mentre in quella attuale è veramente evidentissimo e asfissiante.
Il mio capo è continuamente sulla difensiva verso gli altri enti e impone in ufficio un'atmosfera tesissima perchè non accetta azioni che possano mettere il nostro ufficio in svantaggio o in difficoltà rispetto agli altri enti.
I suoi discorsi cominciano spesso con "non possiamo permetterci che gli altri enti ci possano criticare/attaccare o essere scontenti di noi...." e questo si traduce in una grossa conflittualità interna all'ufficio perchè nessuno vuole sbagliare e se qualcuno lo fa viene attaccato dagli altri che vogliono discolparsi.

Il paradosso è che quando il mio capo o altri colleghi parlano con persone delle aziende concorrenti, per scambiarsi pareri o informazioni, il rapporto è molto cordiale, quasi amichevole e questo a riprova del fatto che la "competizione" non è verso l'esterno, ma all'interno.
Io credo che questo non sia frutto di un malfunzionamento, ma proprio per la dinamica fisiologica dell'organizzazione del lavoro all'interno delle strutture aziendali e degli obiettivi che vengono dati ai singoli reparti che la maggior parte delle volte creano questo stato. Infatti qualche tempo fa l'azienda mi ha fatto frequentare un corso di Project Management dove all'inizio il relatore ha parlato un pò di organizzazione aziendale e ha detto che l'organizzazione funzionale (quella che raggruppa le persone in enti che hanno la stessa funzione), che è quella più diffusa perchè più economica e naturale, crea un fenomeno noto di "silosizzazione" in cui ogni ente sviluppa competizione e insofferenza verso gli altri, perchè di fatto ognuno ha degli obiettivi che sovente vanno in conflitto con quelli degli altri enti.

Allora, mi chiedo, se queste dinamiche sono note, a cosa serve propinare la retorica della squadra e della spedizione alpinistica, quando i modelli non sono calzanti perchè la situazione è più complessa?
E’ solo una favoletta che viene propinata per mancanza di introspezione dei vertici aziendali oppure è una strategia precisa per falsare la realtà?


mercoledì 10 aprile 2013

Come è cominciato tutto





Sono un dipendente d'azienda, laureato e di livello medio alto e ho avuto la fortuna di laurearmi in anni in cui era abbastanza semplice essere assunti in aziende private, e anche passare velocemente a un contratto a tempo indeterminato.

Come tanti ragazzi che escono dal mondo dell'università, non avevo ben chiaro cosa fosse il mondo del lavoro e anche a causa di una laurea "generalista" che porta poco alla specializzazione, per la tendenza a voler tenere la "mente aperta" e poter entrare in ambiti molto diversi, è capitato che il mondo del lavoro decidesse per me quale sarebbe stata la mia strada. La migliore occasione che mi è capitata ha praticamente indirizzato il mio percorso lavorativo in una certa direzione che è poi difficile, soprattutto in Italia, riuscire a modificare.

Questa strada per me, come per tanti altri miei colleghi, è consistita nel ricoprire ruoli in aziende manifatturiere metalmeccaniche e nel tempo sono solamente riuscito a cambiare settore, rispetto a quello iniziale, e a modificare un pò il ruolo lavorativo.
Negli anni mi sono reso conto di come la mia indole e le mie aspirazioni professionali si coniugassero molto male con le qualità e con il tipo di ruoli che vengono richiesti in questo tipo di aziende e ciò mi ha portato a innumerevoli scontri interni coi miei responsabili o con colleghi. Del resto, più si va avanti e più, soprattutto in Italia, diventa difficile cambiare, perchè si continua a essere identificati più con gli ambiti in cui si è operato in passato, piuttosto che sulle caratteristiche personali, sulle competenze e sulle predisposizioni.

Io continuerò a cercare di modificare il mio percorso, perchè le mie ultime esperienze e la mia formazione mi spingerebbero sempre più in contesti diversi, ma contemporaneamente negli ultimi tempi, come per una sorta di autodifesa, ho cominciato a riflettere sulle modalità del lavoro in questo tipo di aziende e pescando in anni di esperienza ho individuato innumerevoli assurdità, tante strane abitudini e mille incongruenze che alla fine ho deciso di raccontare in questo blog e sfogare così la mia crescente incompatibilità.

Non potevo sopportare più il regime dominante, non posso cambiarlo, non riesco a fuggire e allora ho deciso di fare l'unica cosa che potevo.
Diventare un dissidente.